Irrompe nel discorso politico di queste settimane il testo della Confluencia femminista “Un’economia femminista per un mondo in trasformazione”, a ricordarci come ecologia e femminismo dovevano essere sovversione del capitalismo, non giardinaggio e passeggiate, e nemmeno occasioni di assimilazione nel sistema senza mettere in discussione il logocentrismo del patriarcato tecnocratico. Agroecologia, ecofemminismo e mediattivismo: le parole scippate dell’inizio millennio antiglobal sono state state pratiche di vita smorzate?  Ci hanno davvero rubato l’agibilità politica in questi venti anni di millennio globalizzato?

echaurren
Immagine di Pablo Echaurren

“La chiesa dice: il corpo è una colpa

La scienza dice: il corpo è una macchina

La pubblicità dice: il corpo è un affare

Il corpo dice: io sono una festa”

Eduardo Galeano

E’ vano fare la critica dell’esistente con la speranza di cambiarlo, perché l’esistente si riproduce al di là delle nostre intenzioni. Allora il compito è quello di spezzare il meccanismo della ripetizione. Questo lo scrisse nel 1980 una filosofa femminista italiana che individuò uno dei meccanismi più tremendi di riproduzione del potere attraverso il simbolico, e lo chiamò regime di ipermetaforicità.(1) Esso consiste, sostanzialmente, nel riprodurre come sapere collettivo unicamente il già detto, cioè il già codificato, il già previsto, e lasciare fuori l’imprevisto riducendolo a non detto, silenziando così buona parte di realtà e di fatti, spesso la parte più scomoda. Quello che Foucault ha chiamato regime di verità nel sistema del controllo bio-politico. Esiste però un modo per sovvertire questo regime, e cioè usare parole che non fuggono dal vissuto, che tengono conto dell’esperienza, che partono dal sé. Come si fa? Occorre riportare alla parola i non detti e svelare i meccanismi di riproduzione del sapere codificato: questa è la condizione necessaria per riconoscere (e smascherare) il potere nelle sue dinamiche comunicative e simboliche.

Dagli inizi degli anni Novanta in poi in realtà tutto questo è successo. Si sono elaborati pensieri e pratiche, ad esempio, che hanno svelato il meccanismo della riproduzione di saperi brevettati che riducevano alcuni esseri viventi a prodotti per il mercato globale: si trattava della proprietà intellettuale di sementi geneticamente modificate che iniziarono dal 1986 percorsi di riconoscimento legale grazie a governi succubi degli interessi delle multinazionali biotech.(2) Proprio di questi giorni è la notizia che per la prima volta un contadino italiano, in Sicilia, è stato condannato per aver usato semi prodotti da lui ma non di sua proprietà, essendo stata appunto brevettata la vita.(3)

Aver svelato questo meccanismo, che porta con sé la riducibilità della vita a prodotto vendibile di proprietà di qualcuno (le multinazionali agrochimiche) ha sviluppato nelle persone una forte opposizione, negli scorsi decenni, a questa pratica di potere che è forse il simbolo della violenza politica della globalizzazione capitalista. Il potere ha continuato a riprodursi ma senza consenso, e questo ha generato una frattura insanabile tra politica e popoli, che è il vero problema della nostra epoca: a causa di questa frattura nulla è più credibile di quanto dice e fa la politica, in quanto nulla di quello che dice e fa la politica è più libera dal controllo bio-politico del vivente da parte del mercato globale.

Nel 1994 c’è stata la rivoluzione zapatista attraverso cui un popolo rivendicava la riappropriazione di un potere condiviso e popolare e svelava il meccanismo comune del dominio, presente sia nel capitalismo degli ultimi due secoli, sia nel patriarcato che è il suo background culturale millenario. Questa riappropriazione simbolico-sociale è avvenuta in una sperduta regione povera del Messico, il Chiapas. Analoghe istanze si sono levate negli stessi anni da parte dei contadini Sem Terra (“senza terra”) del Brasile e di quelli indiani, e in breve tempo sono state accolte anche da realtà urbane come il movimento di Seattle e da ricercatrici e ricercatori, tra cui il filosofo del linguaggio americano Noam Chomsky e la fisica indiana Vandana Shiva. Ma queste pratiche raccoglievano molte eredità degli anni precedenti:

– l’autocoscienza delle donne, con la riappropriazione di un sapere del proprio corpo, fino ad allora “interpretato” dall’esterno, cioè da un uomo con diritto di parola in quanto “esperto” all’interno del regime di verità fallo-logocentrico;

– l’antropologia e l’etnologia, con la scoperta di forme di economia e di società non capitaliste: dalla teoria del dono di Marcel Mauss nacque il Movimento Antiutilitarista e poi quello della Decrescita francese;

– l’ecologia della mente come filosofia che parte da un’epistemologia che non si fonda più sulle opposizioni natura/cultura e mente/corpo;

– l’ecologismo politico con la centralità della terra, concetto non letterale ma simbolico, ma di un simbolismo non più astratto, logocentrico, come quello metaforico – “la terra simbolo della nazione” – bensì contestuale, metonimico: la casa che ci ospita come esseri umani, la “terra metonimia della Terra”.

Per essere metonimica, un’espressione linguistica deve avere un legame contestuale, un aggancio con la realtà, non deve partire per la tangente dell’astrazione come fa la metafora: “Luigi è un ippopotamo” è una frase metaforica, fornisce senso connotando come grasso Luigi, ma tra Luigi e l’ippopotamo non esiste alcun legame reale. In questo modo io posso inventare significati all’infinito, questa è una grande possibilità ma la nostra società è affondata in questa bulimia di significati, che hanno generato saperi astratti che non conoscono più la loro matrice reale, perdono cioè il legame con gli stessi “oggetti” che studiano. “Leggere Pasolini” è una metonimia: non sto leggendo letteralmente l’uomo Pasolini, ma i suoi scritti: è una forma simbolica, ma tra i due termini del testo e dello scrittore c’è stato un legame materiale. Tra le metonimie più famose ad esempio c’è anche la sineddoche, la parte per il tutto (“passa una vela”) che risponde alla stessa modalità simbolica.

Quindi basta usare le metonimie, pensare metonimico e riconoscere le astrazioni per liberarsi dal potere? Secondo me provare a liberarsi dalle astrazioni logocentriche è un primo passo verso questo scopo, ma non basta: occorre anche la consapevolezza di dover uscire dai cortocircuiti logici e materiali che rendono incoerenti (e infelici) le nostre vite. La necessità cioè di spezzare il meccanismo della riproduzione del potere, come dicevo all’inizio citando Luisa Muraro, la filosofa italiana che ha descritto questo meccanismo(4): le pratiche di liberazione sono sempre state sussunte dalla borghesia capitalista, è avvenuto per le sottoculture giovanili degli anni Settanta, dalla musica alla letteratura, ed avviene in questi anni per le pratiche legate alla t/Terra.

Il mercato ha sussunto le pratiche ecologiste sotto i brand del “naturale”, e lo ha fatto non solo acquistando brand, ma nel modo peggiore: insinuandosi nelle coscienze individuali e nelle pratiche collettive che a volte, forse spesso, si sono svendute e hanno perso la loro matrice, si sono cioè piegate ai meccanismi del dominio, per incapacità o per difficoltà, continuando ad esistere (come gas, come mercatini, come botteghe o quant’altro), ma di fatto attuando il distacco dalla realtà, cioè la scissione tra le parole e le cose, il praticare il contrario di quello che si dice. Non sto parlando di tutte naturalmente, ho personalmente conoscenze e pratiche di tante realtà che continuano a mettere al centro le ragioni da cui sono nate, tra queste per citarne una la rete dei produttori di “Genuino Clandestino”.

Naturalmente quanto detto non vale solo per il discorso ambientale, ma per tutte le forme della politica: vale per partiti che hanno preso voti contrastando la guerra e hanno votato il rifinanziamento delle missioni, tanto per fare un esempio di come è morta la sinistra italiana, a metà degli anni Zero. Ma nel regime di ipermetaforicità, l’assurdo del fare il contrario di ciò che si dice diventa l’ovvio di dover fare quello che impone la “realpolitik”, la presunta necessità materiale: è ovviamente un controsenso logico frutto del deviazionismo che si impone alla comunicazione pubblica per riprodurre il potere. Ovviamente per me, per come funziona il mio cervello.

Oggi questo aspetto tocca gli aspetti più cocenti della vita, cioè il controllo della verità scientifica e delle pratiche sanitarie: la possibilità di autodeterminarsi delle popolazioni si scontra con la “parola dell’esperto”, e questo non significa che la parola di chi ha studiato valga come quella di chi non ha studiato un argomento (ma soprattutto direi, studiato e praticato). Vuol dire che alcune pratiche diventano invise o invisibili se urtano e contraddicono il già detto, il già codificato: è la situazione paradossale in cui si è trovato ad esempio Giuseppe De Donno, medico “di campagna” come usa definirsi, il medico mantovano che ha sperimentato con successo il plasma per i malati da Covid19, ma ha trovato l’indifferenza della società medica fin quando non ha dovuto sollevare polveroni popolari, trovando allora l’aperta ostilità dei soliti noti scienziati televisivi, ma anche il consenso popolare che ne ha decretato la possibilità di sperimentazione su larga scala per avere uno strumento terapeutico efficace e utilizzabile ovunque. Indicativo è stato anche in questa occasione l’ostracismo arrivato da una parte della nostra opinione pubblica considerata di sinistra ma di fatto succube delle idee della destra neoliberista nel più evidente scollamento tra parole e fatti: un atteggiamento politico dettato da snobismo dottrinale e mancanza di pensiero critico rispetto ai presunti esperti, che simboleggia esattamente il meccanismo della perdita della realtà messa in atto dalla riproduzione ipermetaforica di un sapere funzionale al potere.

Per i motivi esposti, secondo me un pensiero e una pratica politica efficaci – che parlino nei corpi e nella terra senza riprodurre l’esistente violento di un potere che parla dei corpi e della terra – devono inevitabilmente passare da un pensiero ecofemminista, e devono mettere al centro l’agroecologia, ossia pratiche di riproduzione delle necessità di vita e di cura che escano dal meccanismo della riproduzione dei saperi brevettati, in particolare dei saperi in mano alle multinazionali hi-tech e bio-tech che hanno condizionato massivamente le politiche planetarie degli ultimi vent’anni. Non ho affrontato qui le motivazioni legate alle possibili nocività biologiche di queste politiche – ad esempio dell’uso di pesticidi o dei semi transgenici – perché questo discorso che ho fatto è precedente a questa nocività, vera o presunta che sia, ed è la matrice politica dell’opposizione al capitalismo globale del terzo millennio: è questo il punto, oscurato dallo scientismo che ha colonizzato la sinistra neoliberista. È una ventata d’aria fresca quindi il documento che la “Confluencia femminista” ha scritto pochi giorni fa per il Forum delle Economie Trasformative: “Un’economia femminista per un mondo in trasformazione”.(5)

Liberarsi dalle gabbie simboliche di un sistema comunicativo che oscura e manipola la realtà attraverso il linguaggio ipermetaforico e imparare a comunicare e diffondere pratiche di vita senza che siano snaturate dalla sussunzione capitalista: è questa secondo me la chiave per uscire da questa crisi perenne, da questa realtà distopica che ci stanno prospettando, da una finta sinistra complice degli orrori della globalizzazione, dal cieco sovranismo pseudorivoltoso. Dal cul-de-sac fusarico-burionico. In questi anni abbiamo visto un ecologismo e un antisessismo di facciata, li abbiamo chiamati greenwashing e pinkwashing, sono stati rappresentati da politici, giornalisti, intellettuali e varie altre rappresentanze fintamente liberatrici ma in realtà amate dal mainstream perché parlavano genericamente di diritti civili senza mettere in discussione le ingiustizie di fondo. Dal punto di vista del simbolico, sono forme di liberazione sottomesse all’astrazione ipermetaforica: è l’alta borghesia che parla di sviluppo sostenibile e di parità di genere, sono le parole degli oppressi e delle oppresse strumentalizzate dai ricchi, sono le soggettività che invece di autodeterminarsi demandano la propria liberazione ai rappresentanti mediatici di una liberazione virtuale. È cioè la generazione libera di significati metonimici succube della rete della metafora, nel gioco simbolico della sussunzione capitalista. Le bottigliette d’acqua gay-friendly della Nestlé durante i pride o le etichette rosa sulle banane Chiquita sono degli esempi emblematici.

“Dont’hate the media, become the media”, “non odiare i media, diventa i media” era la metonimia azzeccatissima usata come slogan dalla piattaforma Indymedia, che fu la cassa di risonanza del movimento altermondialista, una sorta di forum virtuale interattivo con le radici profonde nelle pratiche di resistenza, un social network antelitteram che è finito proprio quando il suo meccanismo è stato sussunto dai social network generalisti, simboli indiscussi della sottomissione della realtà alla virtualità della nostra epoca. Una sconfitta politica e culturale? Il segno che tutto quanto detto finora non spezza i meccanismi di un potere che si riproduce? Io non la vedo così, senza voler con questo minimizzare le sconfitte passate del movimento cosidetto no global. Io penso che sia stata proprio l’incapacità interna (nostra) di spezzare i meccanismi del potere a farlo riprodurre. Indymedia o Ecn non sono state sostituite da Facebook e da Twitter, bensì assediate e scompaginate: non possono essere sostituite semplicemente perché i social network capitalisti non possono riprodurre il contesto in cui nacquero le reti del mediattivismo sociale, possono solo scimmiottare un mondo di finti amici e compagni, di finte condivisioni, di finta comunicazione politica, e imporsi con la violenza del mercato che fa passare per necessità i bisogni indotti. Questo lo sappiamo anche se ci stiamo dentro ai social network, anche se siamo consapevoli che sia una frattura interiore, ma spesso cerchiamo di indicare lì dentro quali possono esserne le vie di fuga, le vie per ritessere i fili dell’attivismo e del mediattivismo reali. Spesso usiamo quegli spazi per rimandare ad altri spazi, più connotati e più legati a pratiche politiche concrete, ma naturalmente conta la nostra capacità individuale di resistere e di restare lucidi dentro l’uragano tecnocratico che ci ha travolti in questi due decenni. E conta la possibilità di restarne fuori, perché ovviamente è necessario anche creare degli “altrove”.

Occorre allora forse andare a fondo di questa frattura. Occorre cercare laddove avviene, dentro di noi, questa frattura tra le parole e le cose, e questo forse occorre farlo mettendo in discussione le pratiche più profonde della nostra vita occidentale. Senza di questo, senza un’autocoscienza individuale e collettiva che parli la lingua della realtà – la lingua dell’io sento, non dell’io penso – nessuna pratica può funzionare veramente. Ho imparato che questo è necessario per un cambiamento che smuova realmente la profondità, in particolare l’ho imparato grazie alla partecipazione in gruppi di riflessione e condivisione di uomini che mettono in discussione il patriarcato, gruppi in cui la pratica politica si fonda sulla sospensione dei giudizi e delle idee e sull’emersione delle narrazioni e dei vissuti.(6)

Ora, questi giorni, questi mesi, sono stati la necessità di questa messa in discussione, sono stati anche forse l’orrore più profondo di pratiche repressive che abbiamo vissuto, che hanno lasciato senza parole o che hanno fatto uscire parole scomposte. Ma una possibilità lo sono, inedita. Se la politica, la società e la realtà si stanno dissolvendo in un virtuale distopico, non rimane altro da fare che iniziare a praticare un’utopia concreta.

Gianluca Ricciato

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NOTE

(1) G. Ricciato, “Il regime di ipermetaforicità”, ne “Gli ordini simbolici di metafora e metonimia”,  https://fiabeatroci.wordpress.com/2017/11/25/il-regime-di-ipermetaforicita/

(2) cfr. Vandana Shiva, “Il mondo sotto brevetto”, Feltrinelli 2002. “Un ulteriore passo fu, nel 1994, l’approvazione del trattato internazionale TRIPS da parte dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (l’ormai defunta WTO) che ha di fatto imposto la pratica già iniziata qualche anno prima negli USA di produrre brevetti sull’esistente, cioè sulla vita” https://progettonaturaldurante.wordpress.com/2018/01/31/il-dado-e-tratto-la-natura-nel-piatto-speciale-tg1/

(3) “Un anno di carcere per aver piantato pomodori. La guerra dei semi tra Bruxelles e Ragusa”, https://www.terrelibere.org/carcere-pomodori-guerra-semi-bruxelles-ragusa/

(4) Luisa Muraro, “Maglia o uncinetto – racconto linguistico-politico dell’inimicizia tra metafora e metonimia”, Manifestolibri 1998 (Feltrinelli 1980), http://www.generazioni.net/biblioteca/maglia-o-uncinetto-luisa-muraro

(5) http://www.labottegadelbarbieri.org/economia-femminista-per-un-mondo-in-trasformazione/

(6) La rete dei gruppi di cui faccio parte si riconosce nel nome Maschile Plurale, senza per questo avere posizioni o linee politiche condivise, ma uno spazio di confronto aperto e libero e un’attenzione alta rispetto alla connivenza con i modelli di vita patriarcali, cfr. http://www.maschileplurale.it/

il-mondo-cambia-con-il-tuo-esempio-non-con-la-tua-opinione-paulo-coelho

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