Fine dell’anno. Fine del mondo. Ozio creativo

Fine dell’anno fine del mondo.

Un po’ perchè da anni si va millantando questo sul 2012, un po’ perchè sembra spesso che veramente stia crollando tutto.

Il 2011 finisce con le facce stanche e depresse di chi fa lavori inutili, se non dannosi, ciclici, reiteranti, seriali, paranoici, svogliati e li accetta perché è pazzia lasciare o non accettare un lavoro oggi, no?

Finisce con la melassa inutile del lamento precario di quelli come me.

Mi lamento ma che mi lamento.

Ma dato che questo blog atroce non ama le lamentazioni ma le narrazioni, le favole e a volte i rigurgiti, esso blog lascia il 2011 con una speranza oziosa e creativa.

Io credo insieme a poch* altr* che lo pensano, che l’ozio creativo sia una delle poche vie di fuga, o quanto meno conditio sine qua non.

Lasciamo per un attimo la nostra coazione produttivista a pensare che l’ozio è il padre dei vizi, coazione per l’appunto patriarcale e capitalista che ci ha portato a consumare il pianeta terra e a distruggere le relazioni umane facendo finta di stare facendo qualcosa di utile e importante a ogni ora del giorno.

Lasciamo che sia la verità, quella dei sensi, non la Verità maiuscola e assoluta delle fanfare filosofiche bianche e maschie.

La verità dei sensi non è che i miei problemi sono causati dai lavavetri censurati da mostri cofferatiani, dagli immigrati che rubano l’identità a pagliacci casapaundici, dai mutui da accendere per fare finta di essere ancora vivi in quel quadretto da mulino bianco che costruirono i nostri predecessori.

I miei sensi mi dicono da tempo che è tutto finito ed è tutto da reinventare.

Non lo so come, ma a istinto seguo degli spunti. Quelli accademico-intelligenti devono seguire le vie analitiche, mentre gli spunti più reali e veri come sempre seguono altre vie. Oziose, creative, artistiche, sonore, cazzeggiose.

Ognun* è invitat* ad aggiungerne, se ne ha. Di spunti e di vie.

Questa che vi presento è per me una delle vie, sotto le mentite spoglie di una bella canzone bossa di un gruppo amico e di un articolo che feci l’anno scorso a partire da una loro riflessione.

Buona fine del mondo occidentale

E buon 2012

Bella!

🙂

Ozio creativo mangia capitale

Al Parlangeli di Lecce si è svolto un seminario tanto anomalo quanto necessario voluto dal consiglio didattico di Filosofia, per parlare di otium e negotium latini, ma soprattutto dei modi possibili per mettere in discussione oggi un produttivismo insensato che logora l’esistenza di tutti.

È una cosa talmente radicale che è difficile da vedere e da praticare anche per i più acerrimi nemici del sistema: ammutinare il produttivismo. Se ne è parlato a Lecce, nientemeno che all’Università, con artisti, professori e professionisti vari. Professionisti ufficialmente del neg-otium, ma in realtà tutti più o meno implicati in varie forme di ozio creativo.

Il pretesto è stato l’uscita dell’album Sciù Sciù degli Anima Lunae (Capitoni Coraggiosi, 2009), sorprendente e tenace gruppo leccese di musica caraibica e sudamericana – il son salentino, amano chiamarlo. L’organizzatore di questo seminario, intitolato Otium e negotium – Dal principio di prestazione all’ozio creativo, è proprio il cantautore Beppe Elia, poeta che canta alla luna e anima degli Anima Lunae.

La cricca chiamata a raduno per questo seminario formativo è formata da una credibile serie di personaggi – dal sociologo delle transe Piero Fumarola ad uno dei protagonisti dell’ambientalismo salentino come Sebastiano Venneri – resistenti alle monocolture del produttivismo seriale occidentale. O per dirla più semplicemente da una serie di persone che nella vita hanno tentato di non dividersi fra tempo libero e tempo occupato, fra sapere da una parte e piacere dall’altra, fra produzione e ricreazione.

“La movida, il tempo libero, la ri-creazione” dice il professor Domenico Fazio “non sono altro che attività canonizzate del consumo”. “Costringere tutti a tornare al negotium” aggiunge Carlo Formenti “è stata l’arma del liberismo per sopprimere la ribellione degli anni Settanta, l’inizio della frammentazione e dell’individualismo. Fino ad arrivare ai giorni nostri dove l’ozio è talmente negato da essere totalmente risucchiato nella produttività: ogni comunicazione, ogni chiacchiera, ogni forma di divertimento deve finire per produrre ricchezza per qualcun altro, l’hi-tech del capitalismo globale si fonda sul nostro divertimento, sul nostro tempo (apparentemente) libero passato a consumare comunicazione fra social network e cellulari. L’unico modo che ci rimane è di riservarci un residuo di otium veramente libero e creativo almeno per ragionare di questo!”.

Sono l’arte, la fantasia e il tempo per praticarle, questo residuo?

Proprio a questo proposito, nell’affermare che le lotte degli anni Settanta hanno rappresentato dopo secoli le prime forme collettive di ammutinamento dalla cultura produttivista – l’ozio al potere – Luigi Lezzi ricorda il capo sioux Alce Nero che diceva: “Il mio popolo non lavorerà mai” e gli indiani metropolitani del Settantasette occidentale che riprendevano questo slogan.

“Per Alce Nero non era il rifiuto del lavoro tout court” spiega Lezzi “era il rifiuto del vostro lavoro, di questo lavoro.”

Di un modo di produrre che divide l’anima dal corpo, l’essere umano dalla terra, di un tempo della produzione che ruba sei giorni su sette al tempo della vita.

Il neg-otium era per i Latini negazione dell’otium. Era cioè la forma negativa della contemplazione, del pensiero, il negarsi a se stessi per iniziare ad agire, e poi ritornare all’ozio. Non era apatia né il padre dei vizi, era il “rotolare dei pensieri”, la divagatio mentis necessaria per poter ragionare del negotium.

Oggi probabilmente non serve più ragionare dei nostri vari e incessanti negotia, e magari è per questo che tutto va allo scatafascio. Ora che, come dice Venneri, “perfino la vacanza ha perso il suo senso etimologico di vuoto, assente, vacante, per essere continuamente riempita di attività che consumano noi stessi e il territorio”.

Per evitarci, anche in vacanza, di pensare a noi stessi e al territorio. Perché contemplare la Natura è ormai perdita di tempo.

“È da una certa fase del medioevo” ci ricorda Mino Toriano, chitarrista degli Anima Lunae “che l’otium è diventato l’allegoria di uno dei sette peccati capitali – l’accidia – il demone meridiano che attaccava gli alacri e produttivi monaci proprio nel loro momento di maggiore debolezza, allo schiacco pomeridiano del Sole, con l’arma impropria della divagatio mentis”.

E’ passato un millennio ma non sembra molto diversa quest’allegoria dalla pericolosa sonnolenza postprandiale che si aggira negli uffici metropolitani dopo la mezz’ora quotidiana di pausa pranzo.

Al fondo dei liberi e divaganti pensieri che hanno riempito questa nuvolosa mattinata salentina di inizio estate del secondo anno di crisi globale, ci sono in realtà molti nodi cruciali del pensiero occidentale e delle nostre esistenze quotidiane, magari non nominate esplicitamente ma continuamente in filigrana in tutti gli interventi: la possibilità in quest’epoca di creare, di fare arte, poesia nel senso etimologico della poiesis, del fare appunto; il nostro modello di sviluppo improntato alla crescita illimitata e alla produzione incessante contro le teorie antiutilitariste e della decrescita; l’utilizzo coloniale delle terre di conquista, cioè dei vari Sud del mondo e delle loro genti, da parte di un Nord, geografico o mentale, che non ha mai perso il vizio di imporre con la forza i propri valori; le fondamenta millenarie di una cultura occidentale che ha consumato non solo la Natura, ma anche le sue radici storiche, quell’equilibrio fondante che si racchiudeva nel famoso passo ciceroniano in cui l’ozio preparava al negozio, in un andirivieni virtuoso che garantiva la sana e saggia esistenza del corpo e dello spirito.

Gianluca Ricciato

Pubblicato in origine in danielebarbieri.wordpress.com

Non detti

Non so quanto abbia ancora senso questo raccontino. Non lo so nel senso che vorrei capirlo. Vorrei capire quanto quello che dieci anni fa aveva ancora  un territorio di scontro tra una maggioranza e una minoranza – e oggi è territorio deserto – sia veramente risolto. O se è solo sopito, ridotto al silenzio, come tante libertà che vengono annullate e sembra non siano mai esistite. La libertà di essere altrove

Ps.: la resistenza, per quanto mi riguarda, durò fino al dicembre 2007 


Non detti (2003)

“L’innesto violento tra tecnologia e comunità vivente è così rapido da impedire qualsiasi narrativa coerente della vita collettiva.”

Enzo Scandurra

 

Alla fine mi sono buttato a terra, sulla terra, appoggiato al muretto di cinta, a guardare le femmine e i maschi che passavano. Erano quasi le quattro mi sembra, se avevo esagerato nel bere sicuramente avevo già smaltito, e mi piaceva stare lì a guardare e non partecipare, con l’arietta notturna di agosto e il fresco che emanava la campagna. Avevo perso tutti. Anzi, forse non mi ricordavo nemmeno con chi ero arrivato lì, sicuramente mi ricordavo con chi ero stato, e alla fine li avevo persi perché queste feste di fine estate vanno sempre a finire così.

A seguire il vento come tira, con gli odori di quelli ca sta ‘rrustenu (la carne) e gli altri aromi di quelli ca sta ‘rrullanu (le canne), e in mezzo varie e diversificate quantità di corpi umani seminudi, giovani vecchi e fanciulle, che vagano e ballano e scuotono i pareo variopinti al ritmo dei tamburi e delle chitarre. Continua a leggere “Non detti”

Il male oscuro dello stagismo di stato

Prima esistevano quelli che lavoravano in proprio, come artigiani o liberi professionisti, quelli che facevano lavori creativi, che si gestivano le ore di lavoro come credevano o come era loro più consono per il tipo di lavoro che facevano. Correvano il rischio di non staccare mai, ma se la cavavano.

È bastato un piccolo semplice stratagemma per fare in modo che non esistesse più il lavoro creativo e/o autonomo e che tutte le anime venissero aziendalizzate: smettere di retribuirlo. La questione è stata mirabilmente esposta dall’attrice Maddalena Balsamo in un video di qualche mese fa dal titolo Naturalmente, ovviamente, chiaramente, non possiamo pagarti…(dedicato a tutti gli artisti)[1]

Ma io ho bisogno di capire il perché di tutto questo. Ho bisogno di capire i meccanismi mentali, perché ogni tipo di dominazione fa leva su dei meccanismi mentali, portati avanti anche da chi è soggiogato. Qualche anno fa pensavo che la mia libertà se coltivata e praticata potesse spargersi e contaminare chi mi stava intorno. Oggi penso che questo può essere vero in alcuni casi ma la cosa è molto più complessa e complicata dal fatto che se io sono libero, o almeno ho più libertà di movimento nello spaziotempo rispetto ad altri, vuol dire che la libertà può esistere, e questo a chi vive soggiogato non piace sentirselo dire.

Vorrebbe dire allora che non è vero che non c’è niente da fare, che tutti siamo costretti ad essere schiavi. Per essere vero che non c’è niente da fare, non devono esistere più persone libere. È più o meno in questo modo ad esempio che nella mia città, Bologna, sono stati soppressi quasi tutti gli spazi di socialità nel giro di vent’anni e sono state fatte fuori le menti più creative, scappate a gambe levate una dopo l’altra. Convincendo buona parte dei bolognesi che non era giusto che esistessero luoghi di incontro serali al di fuori delle case private, delle parrocchie, dei pub (fino a una certa ora) e delle sedi del partito o delle organizzazioni ad esso affini.

Il male oscuro del pensiero unico aziendale in Italia non è nato dalla legge Biagi, da Berlusconi o dalla Fiat. Ma da chi ha permesso loro di prendere piede non riuscendo più a pensare un modello di esistenza diverso. La dittatura aziendale si alimenta, per sopravvivere in questo modo totalitario senza che ci rimettano i padroni, di un’unica possibile fonte inesauribile: lo stagismo, cioè il lavoro non retribuito dei giovani o retribuito miseramente attraverso forme di contratto che non lasciano alcun potere contrattuale al lavoratore, primi tra tutti i contratti a prestazione occasionale. Come scrive Alessia Acquistapace, “sono riusciti a trasformarci in una generazione di precari complici del proprio sfruttamento e innamorati del lavoro gratuito”[2]

Se io decido di fare di una mia passione o attitudine un lavoro, come sarebbe stato ovvio per le persone libere di qualunque altra epoca, oggi ho bisogno di trovare con una certa regolarità dei committenti o degli enti con cui collaborare. Se decido di scrivere i progetti di notte e dormire di giorno, lavorare la domenica e andare a sciare il martedì, dovrebbero dunque essere cazzi miei. Il committente mi da una scadenza, e io la devo rispettare. Se la rispetto, il committente mi deve rispettare a sua volta pagandomi entro la scadenza il compenso pattuito secondo gli accordi iniziali. Sto dicendo l’ovvio, ma quest’ovvio è ciò che non avviene più, soprattutto quando si tratta di associazioni, cooperative, piccole aziende, sindacati e in generale tutta quella parte di società che era il terzo settore e tesseva i fili della cultura e delle relazioni all’interno del contesto sociale italiano. E portava voti ai partiti di sinistra. E ora si allinea alla cultura neoliberista criticandola a parole e servendosi dei suoi mezzi per creare schiavismo lavorativo.

La nostra assenza di potere contrattuale è la loro forza per andare avanti invece di rivedere i loro errori di strategia, attraverso un vergognoso esercizio di potere gerarchico mascherato da finta orizzontalità associazionistica.

Quando io chiedo alle associazioni o cooperative con cui collaboro di essere pagato entro la data stabilita, mi viene risposto che il ritardo non è causato da loro e mi viene fatto capire che se non mi sta bene posso andare via. Salvo recuperarmi all’ultimo momento – alle soglie del mio esaurimento nervoso e dopo decine di email e di pugni tirati sulla postazione bancomat quando tento inutilmente di prelevare soldi che non ho – salvo recuperarmi dicevo proponendomi d’urgenza una nuova collaborazione frutto di un nuovo finanziamento pubblico inaspettatamente arrivato. E continua la ruota, e io controvoglia sono costretto ad accettare ed evitare di mandarli affanculo, perché poi me ne potrei pentire. Ma affanculo ne ho già mandati molti, in ogni caso.

Parlo in prima persona per esperienza vissuta e per far risuonare dentro di me l’importanza del partire da sé, che è la pratica femminista che ha smascherato i meccanismi del potere patriarcale. Ora urge un nuovo partire da sé forse ancora più profondo che smascheri i meccanismi di questo nuovo totalitarismo planetario, che fonde razzismo, sessismo e capitalismo selvaggio.

Parlo in prima persona ma sono esperienze che condivido quotidianamente con tante altre persone, mutatis mutandis, solo che non possiamo fare una lotta comune. Il perché lo ha spiegato Christian Raimo in un recente articolo[3] apparso sul Manifesto, raccontando di una ragazza che collaborava part-time con l’Università guadagnando 650 euro al mese e spendendone 300 per stare in analisi a causa del lavoro che faceva. Un corto circuito mentale tra privato e pubblico, il gatto che si morde la coda. “La formazione di una coscienza di classe era stata sostituita da un percorso individuale di ricerca di sintonizzazione psicologica, per cui spendeva quasi la metà dei suoi soldi mensili”, sostiene Raimo. Impossibile trovare qualcuno con cui condividere, perché siamo migliaia di atomi che vivono accanto e non comunicano, non avendo un luogo comune, essendosi rarefatto lo spazio.

L’unica possibilità che abbiamo è politicizzare questo esaurimento nervoso.

Non credo che tutto quello che è privato debba diventare pubblico, non sono come gli ex rivoluzionari che ora sfruttano me, la mia passione e le mie energie perché hanno fallito la loro missione mitologica di prendere il potere e cambiare il mondo, e quindi si sfogano contro di noi dalla loro piccola posizione di presidenti di enti socialmente meritevoli. Per questi motivi mi rendo conto anche che sto esagerando, che non tutti sono così, che a volte non si fa quello che si vuole ma si sbaglia involontariamente, non per calcolo preciso. Ma questa non può essere una giustificazione per il sistema scientifico di sfruttamento criminale che loro contribuiscono ad alimentare.

Credo che sia importante lo sguardo interiore, anche la riservatezza, la libertà individuale e anche la psicanalisi e tante altre forme di esplorazione del sé. Ma non quando questo sguardo diventa ossessivo-complusivo, quando finisce per diventare paura, perfino di rivelare alle persone più vicine e più affini che non si hanno i soldi per mantenere uno stile di vita fatto per lo più di cose superflue e bisogni indotti.

Lo sguardo interiore dovrebbe servirci per non diventare come coloro che hanno interiorizzato le cose contro cui combattevano e ora sono peggio delle persone contro cui combattevano. Sto parlando dell’attuale sinistra italiana e dei loro affiliati nella società: come potrà mai un grande sindacato scrivere due righe contro le nuove forme di schiavismo sociale, se quelle due righe verranno probabilmente recapitate manualmente o telematicamente da un loro schiavo o schiava stagista o ultraprecaria o a servizio civile, che potrebbe leggere quelle due righe e riconoscersi pienamente?

L’altro giorno parlavo con Alberto, un amico mio coetaneo, mi raccontava del periodo in cui ha collaborato con un’associazione che si occupa di sfruttamento di donne e prostitute. Ha lavorato tre mesi per lo stage del suo Master in Diritti Civili. “Una delle responsabili un giorno è entrata raggiante in ufficio”, mi raccontava Alberto, “piena di gioia vera perché aveva appena saputo che sarebbero arrivate a lavorare sette stagiste. Ti rendi conto?” Urlava! “Sette stagiste, che lavorano a gratis per noi”. La sua unica preoccupazione era evidentemente fare bella figura con i capi o le cape, cioè gli/le ex rivoluzionari/e.

La responsabile di un’associazione che lavora contro lo sfruttamento delle donne urla di gioia perché potrà sfruttare sette ragazze.

E non si rende nemmeno conto che lo sta dicendo ad un altro sfruttato lì presente, che lavora gratis otto ore al giorno per lei, soltanto per finire un Master che lavorativamente gli servirà meno di niente. Probabilmente è questo che intendeva Foucault quando parlava di interiorizzazione del potere.

Il dado è tratto, la missione della nostra epoca è compiuta.

“E lei non è anziana” continua Alberto “è poco più grande di noi, poco prima era lei al posto mio”. Sì ma era felice perché subito dopo avrà mandato un’email al suo capo o alla sua capa, mostrandogli il bottino – le sette fanciulle – ottenuto grazie al suo impegno. È quello che si aspettano da lei, i rivoluzionari e le rivoluzionarie del tempo che fu, che ora esercitano il potere in modo subdolo e deviazionista ma fanno i moralizzatori antiberlusconiani, chiedendoci il voto ogni anno alle comunali-regionali-nazionali-europee.

E che ovviamente sono ciecamente europeisti, perchè sanno che sono lì le vacche grasse da mungere, è lì il vero potere cui leccare il culo, ben al di là delle pagliacciate italiane berlusconiane, com’è emerso definitivamente in questo agosto

“Una bestia in divisa resta una bestia”[4] cantava Frankie Hi-Nrg Mc negli anni della mia rivoluzione adolescenziale. Uno stronzo di sinistra resta uno stronzo, mi resta da pensare oggi, parafrasando.

Bisognerebbe ricominciare a pensare nuovi modi di produzione, di consumo, di relazione, di vita nello spaziotempo che la natura ci ha dato. Anzi no, bisogna smettere di pensare soltanto tutto questo e iniziare a praticarlo, perché non c’è più scampo in questo sistema di cose. C’è solo la coazione a ripetere un esaurimento nervoso. Ma non è vero che nulla può cambiare, è vero quello che noi facciamo diventare vero, con il nostro dire e il nostro fare.

Bisogna rovesciare il tavolo.

Downshifting[5].

 

Gianluca Ricciato

L’eresia della decrescita divide la sinistra (2008)

Il movimento della Decrescita, nato in Francia da qualche anno e ora ampiamente diffuso anche in Italia, sembra l’unica proposta teorica e pratica attualmente capace di mettere in discussione pacificamente il modello di vita capitalista postmoderno e ipertecnologizzato. E per questo è attaccato. Anche a sinistra, anche dentro Rifondazione.

C’è un tabù che non si può toccare all’interno dell’opinione pubblica occidentale: la crescita del PIL, cioè del Prodotto Interno Lordo, l’indice che calcola la crescita economica di una nazione. Se cresce il PIL tutti stiamo meglio, “se l’economia gira”, come ammiccava uno slogan qualche anno fa. E allora bisogna riprendere a produrre e a comprare automobili nuove, bisogna costruire nuove centrali per produrre più energia, magari anche nucleari, l’importante che sia il “nucleare sicuro” o il “carbone pulito”.

Bisogna costruire nuove infrastrutture ad alta velocità che rendano più rapidi gli spostamenti delle merci, a costo di bucare montagne piene di amianto in valli di confine già massacrate dallo sviluppo: così avremo sulle tavole l’olio spagnolo e le acque francesi, non importa se poi il nostro olio va buttato e se il mondo diventa una pattumiera di bottiglie di plastica. All’occorrenza, bisogna anche inventarsi qualche guerra, che rimetta in moto il mercato mondiale del petrolio, delle armi, dell’oppio afghano e del lavoro a basso costo nei paesi “in via di sviluppo”.

Questa che ho descritto sarcasticamente è a grandi linee l’ideologia “sviluppista”, secondo cui la crescita economica porta sempre e comunque benessere, occupazione, felicità. Ma basta prendere i dati Istat italiani degli ultimi quarant’anni, per capire che è una falsità, ad esempio perché dagli anni ’60 ad oggi i dati percentuali della disoccupazione sono rimasti pressocchè stabili a fronte di una crescita considerevole del PIL. Basterebbe questo senza addentrarsi nei danni ecologici, sociali, psichici che uno sviluppo cieco e devastante sta portando sulla Terra e nel genere umano, in cambio della comodità tecnologica (che comunque vale solo per noi occidentali, cioè il 20% della popolazione mondiale).

Ma il tabù del PIL non si tocca: se qualche giornalista televisivo si permette di farlo, viene immediatamente messo a tacere o preso per pazzo. Perché significa sradicare modelli culturali fortemente sedimentati nelle coscienze. Ad esempio, nonostante all’interno del centrosinistra, soprattutto di Rifondazione Comunista e dei Verdi ci siano degli esponenti vicini alle idee della Decrescita, o che comunque mettono in discussione il modello dello sviluppo a senso unico, arrivano spesso critiche violente e sdegnate, ad esempio da parte di alcuni economisti marxisti (il quotidiano “Liberazione” di Rifondazione è stato teatro pochi mesi fa di un acceso dibattito in questo senso).

Ma chi pratica la Decrescita? Facciamo qualche esempio: chi si autoproduce gli alimenti – pane, verdure, vino – o sceglie di acquistarli direttamente dai produttori, evitando di alimentare la distribuzione industriale (è una cosa che ad esempio da noi ha una lunga tradizione); chi lavora o pratica il risparmio energetico in generale, perché non si continui a sprecare energia prodotta con risorse critiche come il petrolio; chi “ricicla, riusa, recupera”, come dice un famoso slogan ecologista; chi sceglie di valorizzare i mezzi pubblici o ecologici rispetto alle automobili; e anche chi cerca di fare tutte queste cose ma non ci riesce fino in fondo, perché per sradicare abitudini interiori sbagliate occorrono attenzione, dedizione e lentezza, cose che troppe volte in questo mondo sembrano non esistere più. Sembrano.

Qualche indicazione italiana:

www.decrescita.it

www.decrescitafelice.it

Maurizio Pallante, La decrescita felice, Ed. Riuniti, 2005

Paolo Cacciari, Pensare la decrescita, ed. Carta – Intra Moenia, 2006

AA. VV. Disfare lo sviluppo per rifare il mondo, Jaca Book, 2005

Gianluca Ricciato

Articolo scritto per il settimanale La Pulce