Aver subito anni di sfruttamento lavorativo e precariato, di annientamento dei diritti sociali e di riduzione della vita a stress psicotico non ha generato le stesse reazioni in tutte e tutti noi.
Personalmente mi riconosco in una parte di popolazione ormai adulta (siamo la cosiddetta generazione X, parlo qui di una parte di essa) che ha deciso di non farsi rubare la vita: non crediamo ai successi lavorativi, alle sirene della meritocrazia, ai discorsi tecnicisti perché abbiamo visto che il nostro tempo di lavoro, le nostre professionalità e il tempo che abbiamo speso per formarci viene letteralmente rubato dal capitale a noi stessi e regalato ai peggiori padroni capitalisti sfruttatori di popoli e distruttori della Terra.
Per essere più chiaro: se io faccio lo stesso lavoro che facevano i miei genitori (l’insegnante), prendo la metà dei soldi rispetto a loro calcolando il costo della vita attuale, lavoro il doppio se non il triplo, ci metto mezza vita ad uscire dal precariato e intorno ho un mondo in cui la socialità è quasi azzerata rispetto ad allora. Semplicemente, non ne vale la pena, perché tra burocrazia, stipendi risicati e stress, fare l’insegnante mi ruba letteralmente la vita (il cretinismo dei tre mesi di vacanza di cui parla lo schiavo di turno è parte di questo problema in un mondo appunto di lavoratori schiavi del capitale).
Lo faccio lo stesso il lavoro di insegnante a volte (non sempre, quando posso, quando devo e anche quando voglio, e faccio anche altro per inventarmi una sopravvivenza), lo faccio dicevo a volte ma lo so che è una vita che per molti versi non ha senso. Poi quando lo faccio cerco di salvare il senso andando a cercarlo altrove o anche là dentro dove possibile, contro una montagna di burocrazia e programmi inutili, cerco di salvare le relazioni umane.
Una parte della mia generazione sa tutto questo e anche se continuamente scende a compromessi con questo mondo di schiavismo lavorativo (la scuola era solo un esempio fatto perché la conosco, e nemmeno il peggiore) sa che non c’è nessun compromesso nella situazione dittatoriale in cui ci troviamo perché il capitalismo della finanza globale non ha più alcun freno legato a welfare statali o diritti sociali.
Ma soprattutto il capitale ha dalla sua parte una maggioranza di popolazione resa docile, isolata, atomizzata e automizzata, misantropa e amante dei suoi carnefici, che tuttavia crede di essere intelligente, informata e progressista e rende impossibili, letteralmente, i ragionamenti che ho fatto finora, con una violenza che a me sembra tanto più grande quanto più tocca evidenti nervi scoperti.
«Le donne saranno sempre divise le une dalle altre? Non formeranno mai un corpo unico? » (Olympe de Gouges, 1791)
La donna non va definita in rapporto all’uomo. Su questa coscienza si fondano tanto la nostra lotta quanto la nostra libertà.
L’uomo non è il modello a cui adeguare il processo della scoperta di sé da parte della donna.
La donna è l’altro rispetto all’uomo. L’uomo è l’altro rispetto alla donna. L’uguaglianza è un tentativo ideologico per asservire la donna a più alti livelli.
Identificare la donna all’uomo significa annullare l’ultima via di liberazione.
Liberarsi, per la donna, non vuol dire accettare la stessa vita dell’uomo perché è invivibile, ma esprimere il suo senso dell’esistenza.
La donna come soggetto non rifiuta l’uomo come soggetto, ma lo rifiuta come ruolo assoluto. Nella vita sociale lo rifiuta come ruolo autoritario.
Finora il mito della complementarità è stato usato dall’uomo per giustificare il proprio potere.
Le donne sono persuase fin dall’infanzia a non prendere decisioni e a dipendere da persona «capace» e «responsabile»: il padre, il marito, il fratello…
L’immagine femminile con cui l’uomo ha interpretato la donna è stata una sua invenzione.
Verginità, castità, fedeltà non sono virtù; ma vincoli per costruire e mantenere la famiglia. L’onore ne è la conseguente codificazione repressiva.
Nel matrimonio la donna, priva del suo nome, perde la sua identità significando il passaggio di proprietà che è avvenuto tra il padre di lei e il marito.
Chi genera non ha la facoltà di attribuire ai figli il proprio nome: il diritto della donna è stato ambito da altri di cui è diventato il privilegio.
Ci costringono a rivendicare l’evidenza di un fatto naturale.
Riconosciamo nel matrimonio l’istituzione che ha subordinato la donna al destino maschile. Siamo contro il matrimonio.
Il divorzio è un innesto di matrimonio da cui l’istituzione esce rafforzata.
La trasmissione della vita, il rispetto della vita, il senso della vita sono esperienza intensa della donna e valori che lei rivendica.
Il primo elemento di rancore della donna verso la società sta nell’essere costretta ad affrontare la maternità come un aut aut.
Denunciamo lo snaturamento di una maternità pagata al prezzo dell’esclusione.
La negazione della libertà dell’aborto rientra nel veto globale che viene fatto all’autonomia della donna.
Non vogliamo pensare alla maternità tutta la vita e continuare a essere inconsci strumenti del potere patriarcale.
La donna è stufa di allevare un figlio che le diventerà un cattivo amante.
Io non divento di centrodestra se Meloni dice cose finalmente sensate sulla gestione pandemica italiana, così come non divento di centrosinistra se qualsiasi segretario/a del PD dice cose sensate sulla risaputa omofobia degli italiani. Giudico un provvedimento politico e decido se è utile. Ma essendo consapevole di non essere in questo 2023 in una democrazia, bensì in una tecnocrazia, ed essendo io avversario della tecnocrazia globale atlantista che rappresenta gli interessi della borghesia capitalista attuale, questi due schieramenti servi di questo sistema di potere non mi rappresentano e non determinano il mio sistema di idee. Ma, mi chiedo, le persone in questo 2023, come formano il loro sistema di idee?
Come scrive Wikipedia: “I principali produttori europei e statunitensi di lampade ad incandescenza del tempo si riunirono a Ginevra, il 23 dicembre 1924, firmando il Cartello Phoebus con un termine ideale per il 1955. Tuttavia la seconda guerra mondiale fece saltare l’accordo nel 1939. All’epoca del cartello esistevano diversi tipi non standardizzati di lampadine, per forma, incastro, tensione, potenza e luminosità: i produttori del cartello si imposero uno standard tecnico, primo caso nella storia della tecnologia, per omologare la produzione e i mercati europei e statunitensi: dato che nella standardizzazione fu imposto un limite di 1000 h per la durata di ogni lampadina, che fu definito come una “ragionevole aspettativa di vita”, ottimale per la maggior parte delle lampadine, furono e sono ancora fatte molte speculazioni su una sorta di primo tentativo di obsolescenza programmata.[1]
Serge Latouche, uno dei massimi rappresentanti dell’idea della decrescita, ricorda nel libro “L’economia è una menzogna” questo episodio del Natale 1924, e lo ricorda senza la prudenza fintamente imparziale con cui lo cita Wikipedia: durante quell’incontro infatti delle aziende private decisero ciò che fino ad allora sembrava un’assurdità per il genere umano, cioè diminuire le prestazioni di un loro prodotto togliendo ad esso tempo di vita. Possiamo considerare, quindi, il Natale 1924 la data simbolica di un mutamento antropologico (in peggio) che ha generato l’essere umano attuale?
«Il giorno di Natale del 1924, i rappresentanti dei maggiori produttori mondiali di lampadine decisero, incontrandosi a Ginevra, che la vita di una lampadina non poteva superare le mille ore di luce, introducendo nei loro prodotti un difetto che prima non esisteva, dato che praticamente le lampadine erano pressoché eterne; a testimoniare questo fatto Latouche ricorda che nella caserma dei pompieri di Livermore, in California, fa ancora luce a tutt’oggi una lampadina del 1912, fabbricata prima delle modifiche peggiorative del 1924. Livermore potrebbe diventare un simbolo internazionale della società della decrescita.»[2]
Ci abbiamo messo un secolo a comprendere, e non ancora a livello generale, che esiste un problema sociale ed ecologico gravissimo che si chiama obsolescenza programmata: automobili, elettrodomestici, computer, smartphone, stampanti, televisori, soprattutto quelle di uso comune e non di lusso, sono prodotti soggetti ad una programmazione pro tempore. Questo è stato possibile grazie a decenni di pubblicità che hanno reso ai nostri occhi anti-economici gli oggetti durevoli ed economici gli oggetti usa e getta. È probabilmente uno dei problemi ecologici più drammatici, che però non ha la fortuna del climate change nei media (forse perché è difficile innescare soluzioni greenwashing come le auto elettriche, su questo tema).
Quali sarebbero quindi le soluzioni? Generare cultura diffusa, scrivere di questo, parlarne, potrebbe servire? Forse sì, ma personalmente ho l’impressione che serva a poco, materialmente, per invertire la rotta, anche perché lo stiamo facendo da anni.
Per questo se devo veramente dire ciò che penso su questo tema, ho bisogno di andare al fondo di un altro problema che a mio parere è strettamente connesso a questo e che riguarda il tentativo di creare coscienza ecologica nella popolazione da parte di una parte di essa. Sono decenni ormai che rispetto al tema ecologista – e non solo – si è diffuso un atteggiamento moralista e colpevolizzante, da parte di molte persone attiviste o che si ritengono tali. È un atteggiamento da purista che si tira fuori dal problema, che crede che la scelta etica lo/la preservi dalla connivenza con la produzione e il consumo capitalista. Dicendo questo non intendo negare il peso delle responsabilità individuali nelle scelte degli stili di vita, ma non si può secondo me scindere questa responsabilità dal fatto che non esiste individuo fuori da una società. Così come non esiste testo senza contesto, e non esistono corpi senza ambiente circostante.
Milioni di individui della società occidentale, quotidianamente, sono indotti ad usare e gettare via centinaia di fazzoletti e tovaglioli di carta, decine tra bicchieri e bottigliette di plastica, fino a qualche mese fa più di una mascherina al giorno (senza che si potesse minimamente accennare al problema pena venire tacciati di essere nemici del popolo). Questi individui sono la normalità strutturale delle società capitaliste e dei luoghi da esse colonizzati. Ma ci sono tanti altri individui che sono pienamente consapevoli del fatto che questa sia una follia che non può andare avanti. Solo che va avanti lo stesso nonostante questa consapevolezza. È questo stesso modello mentale, a mio parere, che rende invisibile il fatto che due anni fa hai comprato un televisore nuovo (o un altro tra le decine di elettrodomestici “indispensabili”) e ora lo devi cambiare, e tutto questo è una delle principali cause del tuo impoverimento, oltre che un danno enorme per il sistema Terra. Ma non sai fare altro che lamentartene e proseguire con la coazione al consumo, cioè con la coazione al tuo impoverimento (inutile parlare di conseguenze ecologiche perché spesso chi vive così non ha nemmeno la capacità o la forza di pensarci).
Credo che questo sia il primo racconto che ho scritto nella mia vita, dico credo perché quella era un’epoca confusionaria e scrivevo tante cose disordinate, ma la sensazione è che la serata qui vissuta sia stata la prima ad ispirarmi una scrittura con un’intenzione narrativa. Nonostante oggi lo editerei da capo a piedi staccandolo dalla pura autobiografia, è giusto che rimanga tale e quale lo scrisse quel ragazzetto nella foto a fine post. Inutile che nego adesso l’occasione dell’attualità che me lo ha fatto tirare fuori, ma con le pagliacciate del regime tecnocratico odierno ha poco a che fare. Sono però felice che anche con il doppio degli anni che ho oggi rispetto ad allora, siano rimaste immutate le mie idee libertarie che mi hanno sempre allontanato dai burattini del potere, a prescindere dal loro posizionamento nella farsa del sistema. Che poi, in un sistema tecnocratico, è sempre un posizionamento di destra. Così come lo è qualunque limitazione della libertà delle persone, oggi come ieri, è sempre quello il problema. Le scuse per farlo cambiano in base alle epoche.
1999
La veneziana brown della mia camera è chiusa per difendermi dai 40 gradi che attanagliano me e una città semideserta, chiusa al traffico nel suo ombelico come informava poco fa il tg3 regionale, ancora rincoglionita da un terremoto notturno che aveva in sé qualcosa di finale, ma anche di iniziale.
Com’ero rincoglionito io ieri sera prima di addormentarmi, quando cercavo vanamente qualche pensiero, qualche appiglio spaziotemporale che non riguardasse le otto ore di terremoto sonoro che avevo appena trascorso. Una ricerca inutile, qualche ricordo importante, qualche legame con il mondo circostante e la mia vita bolognese, qualche varco tra le ombre luminose inserite nella mia mente dai decibel elettrochimici, dall’alcool, dalle sirene, da migliaia di volti e di gambe nude, dal sudore, dall’hascisch.
Intanto…Riforestival è stato un evento contenitore di tanti eventi che ha lasciato in tutte e tutti i partecipanti sensazioni belle, diverse e difficilmente riassumibili. Ho cercato di descrivere il senso di questo evento nel precedente articolo di questo blog.
Qui proverò a restituire qualcosa che è emerso nel laboratorio che ho facilitato nel pomeriggio di sabato 17 settembre, Spazi sociali in contesti rurali. Grazie a tutt’ quant’ per la splendida partecipazione che prelude ad un futuro mirabile su queste latitudini. E grazie a Maurizio Simone per aver ordinato i materiali del laboratorio sugli spazi sociali.
Qui di seguito, prima del report, uno slideshow con alcune mie foto del Riforestival.
Una grande crescita individuale e collettiva, intanto, è stato il percorso che ha portato alla creazione comunitaria di un festival della terra e della comunità salentine, che si svolgerà alle Fattizze d’Arneo (Nardò) dal 15 al 18 settembre prossimi. Sono le parole di Ermanno, uno degli organizzatori, che si è fatto portavoce di una presentazione collettiva di questo percorso, durato alcuni mesi. E aggiunge: Intanto…Riforestivalè un grande laboratorio sperimentale di comunità. Nato con la semplice idea di far festa, di stare insieme e rinverdire piccoli scorci di territorio, con il tempo si è arricchito di tante adesioni libere e spontanee, che ne hanno rimodulato la portata e la consistenza. (…) Gli ulivi sono secchi, le istituzioni non fanno nulla: Intanto…Riforestival. Ci sono tanti incendi, il territorio è devastato: Intanto (tu, noi) …Riforestival. Ci sono le votazioni, ma nessuno ha in programma la riforestazione: Intanto…Riforestival.
È la seconda primavera consecutiva che passo qui, non succedeva da anni, a parte le vacanze di Pasqua e qualche giorno tra 25 aprile e primo maggio rubato al lavoro nelle scuole di Roma.
È la seconda primavera da confinati, anche se le due non sono uguali. Ma di comune c’è l’uccisione della socialità.
Non so perché mi sono venuti in mente i Sepolcri. Per il secondo anno non ci sono stati. Il potere sa che le abitudini si cambiano con il tempo, e il popolo non sempre se ne accorge di stare perdendo i suoi riti in favore delle abitudini telecomandate. Di stare diventando massa.
È più di un secolo che succede, ma la resistenza maggiore viene dai paesi e dai Sud. E dai paesi del Sud.
I Sepolcri io me li ricordo da piccolo come una mega-camminata inedita nelle tenebre mistiche delle strade di Aradeo. In cui potevo incontrare chiunque. Un’occasione unica, diversa dai riti settimanali in cui si facevano sempre le stesse cose.
“Ecco cosa succede, in un giorno d’inverno del 1977, in una grande città italiana, a un piccolo industriale di quarantacinque anni:
L’APPUNTAMENTO DIFFICILE
Deve incontrare un avvocato per fargli vedere dei documenti che si riferiscono alla sua dichiarazione fiscale. L’appuntamento gli viene fissato alle 18.30; chiede di spostarlo di un’ora, perché prima deve andare dallo psicanalista. L’appuntamento gli viene spostato dunque alle 19.30 circa. Dopo di che, comincia a essere colto da un’incertezza: a quell’ora, sua moglie non è ancora tornata a casa dall’ufficio e allora, come fa ad andare dall’avvocato?
La moglie lo deve dunque accompagnare? Non è così. I documenti che vuol far vedere all’avvocato sono collocati, a casa sua, su uno scaffale e l’altro giorno sua moglie ci ha messo un settimanale, ‘Il Mondo’. Ora, guardando di sbieco la copertina del settimanale, gli è parso di veder scritto: ‘Supplemento del Corriere della Sera’, o qualcosa di simile. Cioè, supplemento di un quotidiano, vale a dire di qualcosa che egli non può leggere, perché i quotidiani escono anche la domenica, e lavorare la domenica è peccato mortale. Toccare il settimanale per tirar fuori i documenti sarebbe ugualmente peccato mortale, per lui, e perciò, se la moglie fosse a casa, chiederebbe a lei di fare l’azione proibita. Ma la moglie, per le 19-19.30 non sarà ancora a casa.
Pensa di telefonare all’avvocato per rimandare l’appuntamento. Ma non è possibile: ha accettato lui stesso l’appuntamento, poco prima, quello lo prenderebbe per matto. Bisogna dunque che si decida a estrarre da solo i documenti e ad andare dall’avvocato. Dopo, farà l’‘annullamento’.
Testo e musica di Gianluca Ricciato – Registrato presso Mediterraneo, Nardò (Dicembre 2020) – Mix e master: Michael De Benedittis (FATTA STUDIO) – Hanno suonato: Gianluca Ricciato – voce, tastiere; Alfredo Ronzino – chitarre elettriche, basso; Betta Maggi – sax contralto; Luigi Barone – drum machine
Piombo colorato (G. Ricciato)
Leggera come un piombo colorato Come un effetto collaterale Delle mie scelte di vita Mi bevi le lacrime Mi bevi il dolore Nella tua bocca acida
Leggera come frequenze dei subwoofer Come una musica leggera Una deliziosa sciccheria Che non si chiama borghesia
Leggera che passi volando nei sottopassi E attraversi pareti postindustriali Copri di latex i rifiuti morali Copri di fango le cattedrali Copri di phard i centri sociali
Leggera che hai dimenticato il mio rifiuto Per venire a salvarmi la vita Mi mordi il piacere Mi mordi il dolore Nelle tue labbra acide
Leggera e acida, leggera e acida Ai confini della coscienza Leggera e acida, leggera e acida Dopo tutta questa incoscienza Leggera e acida, leggera e acida Senza inutili pentimenti Leggera e acida, leggera e acida Mescoli i sensi e i sentimenti…
La “puerilità” dell’Oriente ha qualcosa da insegnarci, fosse anche l’angustia delle nostre idee di adulti (Maurice Merleau-Ponty) [1]
Il maschio burionico
Qui e ora noi viviamo in una sorta di iperuranio tecnologico in cui le funzioni cognitive sono privilegiate rispetto a tutte le altre, in particolare rispetto alle funzioni sensoriali, emozionali e sentimentali. Questa non è una novità, le radici di questo modo di vivere sono quelle della nostra cultura greco-latina e la pervasività di un certo tipo di technè nello sviluppo umano inizia con le rivoluzioni industriali dell’epoca moderna. Tuttavia, da circa 20 anni a questa parte, l’avvenuto sdoppiamento della nostra identità quotidiana tra cosiddetta vita reale e vita virtuale ha posto la questione in termini diversi a livello antropologico, non solo rispetto alla pervasività degli strumenti, ma soprattutto rispetto all’organizzazione delle vite e al rapporto soggetto-mondo.
Questo vuol dire che un’esistenza che non passa attraverso lo sdoppiamento virtuale è un’esistenza che fa fatica ad avere voce. E specularmente, che una presenza mediatica ossessiva rende iper-reale un’idea o un fatto. Ciò non rende più o meno vera quell’idea, ma la percezione di quell’idea come vera.
In questo panorama si è innestata una apparentemente nuova figura di uomo di potere, le cui caratteristiche sono sempre apparentemente diverse da quelle del passato, ma rispetto al modello epistemologico esse fanno perno sulle classiche leve del dominio patriarcale che le culture femministe del ‘900 (e non solo quelle) hanno letteralmente messo a nudo.
Provo ad elencarle perché siano più chiare possibili, in quanto sono il nucleo di quello che sto cercando di evidenziare:
logocentrismo epistemologico e fallocentrismo morale
mito del progresso come deificazione della techné
competitività contro cultura cooperativa
primato delle competenze a scapito delle conoscenze sistemiche
cultura della guerra come modello mentale e linguistico
«Secondo alcuni studiosi, il linguaggio scientifico sarebbe una buona approssimazione del linguaggio non retoricamente elaborato. A ciò si potrebbe opporre che il discorso scientifico, almeno in alcuni suoi passaggi decisivi, fa delle operazioni che sono di carattere squisitamente retorico(*).
Si capisce tuttavia come esso appaia vicino al grado zero se si considera che nella ricerca scientifica i procedimenti metonimici e metaforici (**) si articolano in maniera insieme elastica e stabile, molto più che in altre pratiche significanti dove spadroneggiano ignoranza e licenza.
Discussioni secolari su induzione o deduzione per capire alla fine che la scienza non si trova ad affrontare simile alternativa. Non ne ha bisogno, dico io, poiché il passaggio dal particolare all’universale e viceversa è un’operazione pratica che si fa in tanti modi e versi, ogni volta che sia possibile oltre che opportuno. Ed è possibile appena si riesce ad inventare un significato capace di esprimere e progettare il senso globale di un movimento esplorativo, poco importa quanto esteso o di quale natura. I botanici lavorano su lunghe e minuziose raccolte, Galileo si è concentrato su pochi esperimenti mentali, Freud si è dibattuto con i fantasmi suoi e dei suoi pazienti. Naturalmente le scienze non sono tutte uguali neanche da questo punto di vista.
L’anima libera è rara, ma quando la vedi la riconosci: soprattutto perché provi un senso di benessere, quando gli sei vicino.
Charles Bukowski
Il distacco delle menti dai corpi, della ragione dalle emozioni, del sé dal mondo non avviene in due anni.
L’accettazione della narrazione totalitaria della globalizzazione è stato un processo lungo decenni che a sua volta aveva le radici nella società capitalista fordista e nel modello dominatore e competitivo patriarcale.
Il capitalismo globale ha lavorato negli ultimi due decenni per distruggere qualsiasi forma di aggregazione sociale reale e sostituirla con la finzione dell’aggregazione virtuale.
Non solo perché questa è più controllabile rispetto ai corpi reali, ma perché in questo modo ogni interazione è monetizzabile. Ogni amicizia social, ogni riunione online, ogni contatto telefonico porta soldi alle multinazionali hi-tech.
E soprattutto, ogni fatto reale può essere facilmente distorto dalla sua riproducibilità virtuale deformandone il senso.
Non si arriva in pochi giorni o mesi o anni a un tipo del genere di distruzione sociale, a una psicosi di massa e a una falsità ideologica tanto palesi quanto invisibili, su scala globale o quanto meno a livello così invasivo nei paesi dove la vita sociale delle comunità è stata compromessa. La si mette in atto quando si è lavorato bene e a lungo a creare deserto dove prima c’era vita. La riconnessione mente-corpo, la riconnessione delle comunità territoriali e la riconnessione umani-natura sono le uniche vie in questo momento per affrontare la crisi antropologica interna al tardo capitalismo che ognuno/a di noi ha alimentato e da cui non si esce con una manifestazione o con un boicottaggio.
Per smettere di essere automi imboccati dalla notizia di oggi che cancella la notizia di ieri, di essere telecomandati/e nelle nostre scelte di vita, per smettere di essere scelti/e come burattini occorre riconnetterci ad uno stadio di profondità difficile e doloroso, che può essere indipendente dal livello di indottrinamento che abbiamo.
Paradossalmente proprio questo può essere il momento giusto. Perché è il momento in cui la persecuzione si è orientata in modo chiaro verso i nudi corpi.
“Noi non vogliamo che il governo ci tenda la mano, quello che vogliamo è che ci levi i piedi di dosso. Abbiamo dimostrato che possiamo governare e governarci meglio di coloro che lassù in alto si arricchiscono alle nostre spalle” (EZLN)
Il luogo esatto in cui è stata fondata la società della paura ed è iniziata la psicosi di massa che stiamo vivendo. Visibile in una mappa di Genova, 20 anni dopo.
Le zone rosse sono l’arma del terrorismo globale.
1: Palazzo Ducale – sede del Vertice G8 (where the G8 summit took place) 2: piazza Portello 3: piazza Manin 4: piazza Dante 5: piazza Paolo da Novi 6: Boccadasse 7: Arrivo del corteo dei sindacati di base (end of the free unions demo) 8: Partenza del corteo della disubbidienza civile – Tute Bianche (TB) (starting point of the civil disobedience) 9: piazzale M. L. King – GSF convergence center 10: Punta Vagno – GSF public forum 11. Scuole Diaz – GSF media center 12: Fiera – “cittadella” delle Forze dell’ordine (temporary housing for Police Forces) 13: Questura (Police HQ). 14: piazza delle Americhe – dove sarebbe dovuto arrivare il corteo delle TB (where the TB demo should have ended). 15: percorso (route of) Mondelli + carabinieri BTG. “Lombardia”. All’incrocio con via Tolemaide si fermano e attaccano il corteo delle TB (at the Via Tolemaide intersection carabinieri forces stop, and attack the TB demo) 16: percorso (route of) Pagliazzo Bonanno + reparti mobili PS. In Piazza Manin caricano i pacifisti della Rete Lilliput (Police anti riot-units led by Pagliazzo Bonanno attack the Lilliput Net pacifists in Piazza Manin) 17: piazza Giusti, attacco al supermercato “DìxDì” (“DìxDì” supermarket attacked) 18: Marassi, attacco al carcere (the Marassi prison attacked) 19: piazza Alimonda, uccisione di Carlo Giuliani (where Carlo Giuliani was killed) 20: corso Gastaldi e via Tolemaide, carica finale e pestaggi (final police attack and beatings)
“Il mio Mediterraneo non è quello delle cartoline. La felicità non ti viene mai regalata, te la devi inventare.”
Jean Claude Izzo
Tramonto su Bogliasco
Genova qui e ora è una città che si sporge ancora sul Mediterraneo.
Genova qui e ora è anche una città, “quella in cui affiorano l’amarezza e la grandiosità dei sogni”, come scrisse il marsigliese Izzo nel suo ultimo libro poco prima di morire.
Genova qui e ora è molto più di una città, è un modo di vivere vecchio e nuovo al tempo stesso che in quei giorni ci assalì.
Genova qui e ora è un concentrato di desideri che da allora non se ne è più andato, anzi che esonda più passa il tempo e più si avverano quelle cose.
Genova qui e ora è l’esibizione spettacolare di una catapulta che ci sputava fuori dal ‘900 dopo aver distrutto tutte le cose belle del ‘900, la vita, l’arte, la bellezza, la trasgressione, le avanguardie, i quartieri, i teatri, i cinema, le trattorie, la solidarietà delle comunità, e ci aveva lasciato in preda ad un futuro tecnocratico senza futuro.
“C’è troppo menefreghismo, c’è troppo individualismo, si ha paura di mettersi in gioco, di rischiare, di perdere la zona di comfort e quindi ci si adegua un po’ a quelli che sono i dettami che vanno avanti di giorno in giorno. Perché lottare contro questi ti toglie la terra sotto i piedi. Non c’è unione di popolo, mentre in altri paesi, tra cui la stessa Francia da cui parte questo flash mob, sono più famosi per la loro unità di popolo. Non è casuale che sia nato nel paese della rivoluzione francese” (1)
Queste sono le parole di uno degli attivisti italiani del movimento Danser encore, se così si può definire. Il “Danzare ancora” è un’azione situazionista diffusa, un flash mob artistico interplanetario nato in Francia, dove un gruppo di persone canta, suona e balla una canzone di libertà in un luogo improvvisato di una città, in mezzo ai passanti. E a prescindere dal regime di restrizioni in atto in quel territorio. “Danser encore è una canzone del cantante HK (nome d’arte di Kaddour Hadadi) pubblicata nel dicembre 2020. La canzone viene ripresa in Francia e in diversi altri paesi durante dei flash mob, in contesti di mobilitazioni che si oppongono alle misure prese contro la pandemia di Covid-19. HK doveva presentare uno spettacolo con il suo gruppo ad Avignone, ma è stato cancellato durante la crisi sanitaria perché ritenuto non essenziale. In quel momento è nata l’idea di creare una canzone.” (2)
Da dicembre a oggi questa azione di resistenza ha letteralmente girato il mondo coinvolgendo o raggiungendo probabilmente milioni di persone. È raro ormai che mi capiti di dover spiegare a qualcuno cosa sia, perché in qualche modo se non si è venuti a contatto diretto è capitato di vedere una di queste performance online.
Per essere lì alle otto devo mettere la sveglia almeno alle sei meno un quarto.
E mi deve andare bene che la metro deve passare entro dieci minuti, cosa che spesso non succede. Allora per non rischiare decido di non fare colazione a casa, di iniziare a cornetti e farine bianche già dalle sei di mattina.
Il bar sotto casa è aperto acca ventiquattro, come si dice, e non è un modo di dire. Si passano la staffetta ragazze varie, un tipo albanese, barman locali maschi dal carattere diffidente. Mi hanno visto un po’ tutti, a tutte le ore. D’estate spesso arriva la polizia alle tre di notte e fa un gran casino, la sento chiaramente dalle finestre aperte del quarto piano che affacciano sulla pensilina del bar. Ha l’insegna a luci rosse non a caso, ha accanto un finto bingo che funziona da ricettacolo di magnaccia e altra gente losca – alle dieci di mattina vedi uscire dalla porta stangone biondo platino impellicciate che vengono appunto a fare colazione al bar – e poi ha una sala videopoker nascosta da una tendina nera che dovrebbe coprire le malefatte che si compiono là dentro.
Mentre mangio la treccia ai cereali e pera, atto inaugurale della mia giornata fatta di fiorellini messi intorno alle gabbie per sopravvivere, la ragazza dietro al bancone si lamenta delle zingare nella metro. Con il collega albanese. Chiudo gli occhi e addento l’ultimo morso di treccina digrignando i denti. Hanno appena attaccato tutt’e due dandosi il cambio con gli altri due che nel frattempo stanno ancora in giro nel locale sfumacchiando e raccogliendo i cocci della notte.
Eppure serve a svegliarmi, più della colazione sana che avrei dovuto prepararmi in otto minuti a casa. Sì mi potevo anche svegliare alle cinque e fare colazione con calma, ma considerando che ho messo la testa sul cuscino alle due per finire di preparare la lezione, già così è un mezzo suicidio. E non avevo alternative, dovevo studiare e poi una volta ripetute le cose che non leggevo dagli anni universitari, c’è quella parte di me che non si ferma e vuole capire come non diventare l’automa che entra in classe e spiega cose pallose di cui non frega niente a nessuno, e che inizieranno a odiare. E allora metà del tempo se ne va a inventare strategie educative per farli appassionare, video, canzoni, giochi di gruppo e boutades varie. Del resto l’unico momento bello della mia giornata è quando entro in classe, chiudo la porta e sto con loro, mandando affanculo tutti gli adulti zombi come me con cui devo interfacciarmi tutto il giorno. Con loro ritorno umano. L’unico momento bello della mia giornata, anzi della mia vita in questo periodo.
Le Fiabe Atroci ospitano oggi un articolo che parla degli ultimi giorni di vita della Casa Cantoniera Chez JesOulx, in Val di Susa, brutalmente sgomberata il 23 marzo 2021
di Silvia Parmeggiani
Martedì scorso è stata sgomberata la Casa Cantoniera Occupata di Oulx, in alta Val di Susa, che da dicembre 2018 ospitava migranti in transito. L’edificio, abbandonato da anni, aveva ripreso vita, animandosi e accogliendo donne, uomini, bambini e bambine in fuga da guerre, persecuzioni, o semplicemente alla ricerca di un luogo altro in cui vivere. Molti di loro, in viaggio da mesi, avevano percorso migliaia di chilometri a piedi o nascosti su tir, navi e quant’altro, per ricongiungersi con la famiglia già stabilita in Europa.
Il rifugio, detto anche Chez JesOulx – in ricordo della prima occupazione a Claviere sgomberata nell’autunno del 2018 – era molto di più di un tetto sulla testa offerto a chi cercava un ricovero per la notte. Prima che svanisse nel nulla per l’ennesimo sgombero senza senso, ho avuto anche io l’opportunità di viverlo e credo sia importante raccontare e condividere l’esperienza che è stata. Ogni volta che viene spazzato via uno spazio liberato si perde molto di più di un luogo, quattro mura pericolanti: si perdono spazi d’incontro, di attività, di comunità, in questo caso fondamentali per chi ha bisogno di sostare brevemente, di riprendere fiato per proseguire nel viaggio, di ricaricarsi. Eliminando questa oasi si sta togliendo una possibilità di ristoro davvero preziosa, anche capace di salvare vite umane.
Una verdura autoctona prodotta senza uso di pesticidi, nell’odierno 2021, viene considerata in tre modi diversi in base alla fetta di società da cui viene percepita, accolta, mangiata e digerita. Prendo un esempio casuale, la cima di rapa, visto che ce l’ho sul fuoco e l’ho appena raccolta dal bancale sinergico che condivido con un mio amico.
Imponente raccolta di dati statistici e analisi rigorosa delle incongruenze nella narrazione della pandemia legata alla malattia denominata Covid19. Focus in particolare sulla situazione italiana dall’autunno 2019 al 31 dicembre 2020.
Video-inchiesta realizzata dal giornalista Matteo Gracis sulle analisi raccolte dallo statistico Mirco Vandelli (disponibile anche nel pdf – Covid-19, analisi dei fatti).
“Nonostante sia quasi un anno che l’argomento Covid-19 è onnipresente su qualsiasi TG, radio, quotidiano e sito web, un’analisi dei dati, delle statistiche e dei fatti – basata esclusivamente su fonti ufficiali – non è mai stata offerta all’attenzione del pubblico. Questa relazione cerca di colmare tale lacuna.
Con questo lavoro si vuole offrire una panoramica completa di quanto successo in Italia dall’arrivo del virus Sars-Cov-2 ad oggi, utilizzando la statistica e la matematica, due scienze che ci permettono di analizzare l’intera questione – estremamente complessa – con lucidità e senso critico.
Oltre a ringraziarvi per l’attenzione vi invito a divulgare il video con quante più persone possibili, dal momento che contenuti simili purtroppo non vengono portati all’attenzione dell’opinione pubblica.
“In un convegno del settembre 2017 presso il Cicap – Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze, Silvio Garattini, presidente di una fondazione privata di ricerche farmacologiche, tiene una lectio magistralis per smascherare la «finta scienza». Ma si evince subito che i suoi obiettivi non sono i seguaci del paranormale, bensì suoi colleghi medici e ricercatori che hanno idee e pratiche diverse dalla sua. Obiettivo legittimo naturalmente, quello di criticare. All’interno però di questa conferenza – che si può ascoltare online su youtube – Garattini stila un arbitrario «decalogo del perfetto credulone» (visionabile dal minuto 7), in cui invita a fare attenzione ad una serie di persone che hanno almeno «due o tre» delle seguenti caratteristiche, tra cui ad esempio vegetarianesimo, alimentazione biologica e metodi di cura «non ortodossi».”[1]
Notte di pensieri lunghi e faticosi quanto questi mesi quanto questi anni
Notti di ricongiungimento con un lato profondo, il lato futuro e il lato ancestrale, quello che non si accontenta più
Notti interrotte da fuochi e spari illegali di ragazzini che sgusciano via nel buio delle strade buie delle campagne intorno
Notti di una luna araba che sale al di sopra delle palme e disegna un cerchio bianco di luce, unica luce sui muschi e sulle lamie
Notti di stufe accese amori sbagliati massaggi tantrici e partite a carte, di sguardi incrociati tra le carteddhate
Ad inseguire feste e comitive senza senso perché il senso non è lì, il senso si sta liquefacendo sta evaporando in qualcosa di nuovo, qualcosa di più
Notti a cercare qualcosa di più, notti della cupa dei cippuni e delle focare, perché nelle settimane cupe dei giorni brevi la voce degli spiriti si fa più forte
Notti degli spiriti che vengono a dirti qualcosa di inedito per le menti programmate all’obsolescenza consumista
Vengono a dirti che sopravviverai solo se ricomincerai a cercarti, e non è detto che ti troverai ma non hai altra scelta, né altro ti interessa adesso più
Notti a correre spegnendo la mente e notti a correre con la mente spegnendo il corpo, notti a cercare lo spirito che ti riunirà la mente e il corpo
Lo spirito che ti guarirà, che ci guarirà
Notti di ultimi bicchieri di limoncello per fare scendere le pitte rustiche e le fave nette, ma che ti stanno dicendo altro
Notti in cui stai brancolando nel buio alla ricerca della chiave per riconnetterti con quello che ti hanno scippato
La Natura che non è buona né incontaminata ma è semplicemente la verità di quello che sei al di fuori al di sopra e al di qua delle chiacchiere virtuali nei bar virtuali
Notti a cercare brandelli di realtà negata, riunioni in piazza, birra passata di bocca in bocca, cani che pisciano e leccano il selciato, locali di dieci metri quadri in cui chiudersi per scappare dal freddo polare, in cui spogliarsi, strusciarsi, ballare, limonare e poi scappare di nuovo per andare a vedere un’alba adriatica che nelle notti della cupa non arriva mai
Notti a fuggire altrove da tran tran quotidiani di un altrove un tempo scelto per motivi che ormai non ci ricordiamo nemmeno più
Notti a chiedersi come fare a cambiare quello che sembrava non si potesse più cambiare e poi arriva la vita a costringerti a cambiare
Notti in cui parli fino all’alba delle cose che non vanno e che vorresti cambiare a partire dalla tua vita insana e nel frattempo bevi e fumi mille sigarette
Notti in cui resti solo dopo aver visto abbracciato salutato sentito e chattato con mille persone e ripensi a tutto quello che è stato senza capacitarti che sia possibile
Eppure è stato. E non è nemmeno male guardare in faccia la realtà e ritrovarsi vivo nella realtà.
Notti gelide di dicembre in cui si acquieta tutto, in cui sei finalmente sereno e pensi che è inutile qualsiasi sforzo, qualsiasi tensione, qualsiasi conflitto, qualsiasi discorso che non tocchi veramente le corde profonde di quello che senti, di quello che cerchi, di quello che sei
Notti di cupe vampe che sono solo l’inizio di un viaggio alla ricerca di una riconnessione necessaria, un viaggio dentro di te ma che stai facendo insieme a tante altre persone che sentono esattamente la stessa cosa e che tu senti perfettamente appena riesci a spostare il rumore di fondo virtuale che ti ruba il tempo e le cose vere.
Notti in cui la libertà è stata proprio questo, avere il presente qui che racchiude tutto, il passato e il futuro, e in cui non sei più rincorso da un tempo tiranno che ti ruba la vita.
Perché la vita, qui e ora, non te la farai rubare più da nessuno.
Immagine ripresa dal gruppo facebook “Anarchia” (post di Maria Faggiano)
Che cos’è per me l’anarchia
di Gianluca Ricciato
Cos’è l’anarchia? Di base per me è una cosa, principalmente. Che nessuno decide del mio corpo. Perché non è che il corpo è mio, è che io sono il mio corpo. E nessuno mi può passare sopra nelle decisioni, così come io non posso passare sopra alle decisioni di nessun altro corpo-essere.
Questa è la condizione necessaria di ogni convivenza e vale per i comportamenti delle persone, delle associazioni di persone, delle strutture sociali, delle istituzioni politiche, culturali, mediche o scientifiche.
Senza di questo non esiste nessuna possibilità di condivisione, perché senza di questo c’è una vita sottoposta al potere di qualcuno. An-archia, senza potere, non senza regole. La regola che ho descritto finora è la regola basilare di qualsiasi convivenza: nessuno obbliga nessuno a trapassare un corpo-mente-anima, un essere. La regola la fa la convivenza libera.
E tra l’altro questo dovrebbe valere per ogni essere, non solo umano, solo che è ancora più difficile all’interno di una cultura millenaria in cui è gradualmente cresciuta la volontà di dominio sulla Natura. Allora ogni discorso di diritti delle minoranze umane o non umane, senza decolonizzazione interiore della civiltà del dominio, è ipocrita fuffa progressista funzionale al potere.
Ma non sono io da solo che mi posso decolonizzare da una cultura del dominio millenaria, e non posso accusare un’altra persona di non averlo fatto. Posso solo muovere i passi verso un essere senza potere. Posso solo tendere all’anarchia, un’anarchia che può avere mille nomi e colori, ecologista, femminista, comunitaria, socialista e tanto altro.
Ma di base vuol dire una cosa sola: libertà profonda.
E nella libertà profonda dell’essere-umano non esistono confini, passaporti, muri, lasciapassare. Untori, identità nemiche, trattamenti sanitari obbligatori, dogane. Paura dell’altro. Tutto questo è figlio della stessa idea del mondo oppressiva che ha costruito una civiltà della paura.
Nello stato della libertà profonda nessuno impone a nessun altro il divieto di muoversi ed incontrarsi liberamente nel mondo, che sono le attività principali dopo la sussistenza. Chiunque lo imponga, da qualunque parte venga questo qualcuno, sostiene un pensiero, un’idea di vita, un’esistenza e una pratica politica nemiche della libertà. Un’irrealtà insostenibile che genera una non-vita e fa sembrare utopistico l’ovvio, cioè la possibilità di una vita che valga la pena di vivere.
La libertà profonda è costruzione di autodeterminazione e responsabilità comune, sapere condiviso e partecipazione reale, non confusione e terrore imposto dall’alto: per questo l’anarchia fa paura alla borghesia di qualunque colore, che ne cambia il segno e ne riempie di fango il senso e la storia.
Perché la borghesia capitalista ha eretto statue, inni e case alla libertà degli esseri umani per non doverla più applicare nella realtà, perché la borghesia ha paura sia della libertà che della verità.
Ma quando i tempi si fanno cupi la sua vera faccia si ripresenta alla storia, e in quel momento diventa necessario esaurire le chiacchiere e far emergere l’essere-senza-potere, che è il significato letterale dell’anarchia.
L’anarchia è la libertà dei corpi dentro una comunità umana vera e senza confini, è un modo modo di stare al mondo che supera l’odio, la falsità, la paura, la distruzione e il terrore. Compreso quello che da duecento anni il sistema capitalista sta iniettando alla Terra e ai suoi esseri viventi.
«La natura nella concezione di Bacone doveva essere “rincorsa nelle sue peregrinazioni”, “costretta a servire” e resa “schiava”. Essa doveva essere “messa in ceppi” e scopo dello scienziato doveva essere quello di “strappare con la tortura i suoi segreti”. Pare che gran parte di queste immagini violente siano state ispirate dai processi per stregoneria, che erano frequenti al tempo di Bacone. In quanto ministro della Giustizia sotto il re Giacomo I, Bacone aveva grande familiarità con tali processi, e poiché la natura era considerata di solito femmina, non sorprende che egli trasferisse nei suoi scritti scientifici le metafore usate nei tribunali. In effetti la sua concezione della natura come donna alla quale si debbano strappare i segreti con la tortura per mezzo di dispositivi meccanici richiama alla mente con grande evidenza la diffusione della tortura alle donne nei processi per stregoneria dell’inizio del Seicento»
Carolyn Merchant
«La morte della natura. Donne, ecologia e Rivoluzione scientifica. Dalla Natura come organismo alla Natura come macchina», (1988)
Scienza e modelli di sviluppo
di Elisabetta Donini
La critica femminista della scienza degli anni ’70 e ’80 è ancora attuale? Ed è ancora in grado di misurarsi efficacemente con i fenomeni di maggiore portata della realtà mondiale contemporanea, segnata da squilibri sempre più profondi e da una rilegittimazione sempre più diffusa e devastante degli orizzonti della violenza armata e della guerra?
I lavori di Evelyn Fox Keller, Carolyn Merchant, Sandra Harding, Londa Schiebinger sono maturati entro il contesto della cultura occidentale, mettendone però radicalmente in discussione uno dei pilastri fondanti: il carattere neutro, oggettivo ed universale della conoscenza scientifica così come è andata costituendosi in epoca moderna, con il suo risvolto di volontà di dominio tecnico e poi tecnologico sulla natura. In sede storica ed epistemologica, scavare nel nesso tra la parzialità di genere nel segno del maschile e la pretesa univocità di quella forma di conoscenza/intervento è stata l’espressione di una soggettività politica più ampia, che non soltanto non si riconosceva nei rapporti invalsi tra donne e uomini, ma che a partire dalle istanze di liberazione in quanto donne aspirava a contribuire al cambiamento degli assetti generali del mondo.
Nel corso degli ultimi quindici anni l’incisività di tale prospettiva si è a mio parere radicalmente appannata, sia perché tra le stesse donne che sono entrate sempre più numerose nella ricerca scientifica gli interrogativi originari sollevati dalla critica femminista non paiono destare grande interesse sia perché intanto sono invece diventati più incalzanti altri modi di misurarsi con il rapporto tra scienza, potere e modelli di sviluppo, non riducibili a quelli di cui si era nutrito il femminismo nei paesi dell’Occidente. Le vicende della cosiddetta mondializzazione dell’economia hanno infatti fatto esplodere la contraddizione tra la pressione ad assoggettare l’intero pianeta al sistema di mercato e agli stili di vita dei paesi che si autodefiniscono come “sviluppati” e l’insostenibilità di questo stesso sistema e questi stili su scala globale. Perciò voci dal Sud del mondo come quella di Vandana Shiva pongono questioni in cui la critica della volontà di dominio intrinseca alla scienza moderna si richiama si alla parzialità di genere di quest’ultima, ma in un quadro in cui è altrettanto cruciale ragionare del carattere colonialistico e imperialistico del progetto socio-economico cui la scienza moderna è costitutivamente connessa.
Se Evelyn Fox Keller o Carolyn Merchant sono state una guida preziosa per molte donne della mia generazione per rileggere la nascita del metodo sperimentale alla luce del linguaggio da caccia alle streghe con cui Francesco Bacone esaltava la penetrazione violenta nel corpo della natura per strapparne i segreti, non credo irrilevante che oggi compaiano studi (1) in cui quel medesimo Bacone spicca piuttosto come coprotagonista del processo fondativo del capitalismo e del colonialismo inglese tra ‘500 e ‘600, da un lato arricchendosi con la partecipazione in patria all’espropriazione/appropriazione di beni fino ad allora comuni (la vicenda delle enclosures) e oltre Oceano allo sfruttamento delle terre di conquista e dall’altro lato proclamando una Holy War contro ogni ribelle al nuovo dominio. Né credo che, allora come oggi, possano essere condonati come “incidenti di percorso” o spiacevoli quanto incolpevoli “effetti collaterali” i milioni di persone uccise, le distruzioni dell’ambiente, le cancellazioni di culture e modi di vita attraverso cui sono prosperati gli imperi.
La verità è un tema complesso e drammatico come dovrebbe sapere chiunque abbia un minimo di conoscenza filosofica e/o scientifica. Scovare e stabilire dei criteri di verità, quelli per cui una cosa si considera vera o non vera, è stato il modo per generare conoscenze incredibili e, all’opposto, instaurare tirannie insopportabili. Il filosofo francese Michel Foucault, morto nel 1984, ad esempio parlava di “polizia discorsiva” in riferimento alla capacità dei sistemi di potere di stabilire ciò che è dicibile e ciò che non lo è (cfr. Il discorso, la storia la verità, 1972). Per dire, se un potere riesce a stabilire che un’opinione non può avere accessibilità pubblica, e quindi appunto non può “fare opinione”, in quanto in-dicibile, essa sparisce. Anche se era vera.
È nemica l’umidità rimasta su quest’amaca dalla pioggia di ieri, è nemico quest’albero che potrebbe cadere e farmi rotolare in fondo alla valle. È nemica quest’ape che mi ronza intorno e potrebbe farmi del male, è nemica questa catena montuosa che ho intorno da cui potrebbero franare tonnellate di cose. È nemica questa terra che potrebbe aprirsi in due com’è successo esattamente in questo punto poco più di dieci anni fa, cioè una frazione di secondo fa per i tempi della Terra.
Io sono la cultura, la natura è nemica della cultura. Una nemica da addomesticare.
La cultura si difende alzando muri dietro cui si barricano menti, corpi e sistemi immunitari, questa è la sua forza. Quando la cultura invece nasce senza opposizione alla natura è anche lei nemica. Quando queste persone hanno deciso che potevano tornare a ripopolare un borgo a mille metri sul livello del mare, disabitato e polverizzato dalla civiltà urbana industriale, e potevano farlo acquistando terre collettive, che non fossero né pubbliche né private, né dello Stato né delle imprese, cioè i due padroni oppressori complementari e fintamente distinti: a quel punto sono diventati nemici.
Le persone che stanno insieme sono nemiche. Si guardano, si toccano e si trasmettono il virus della comunità.
Bisogna schermare e mascherare le persone che si incontrano. Tu, altro da me, sei nemico a me. Sei un pericolo perché sei vivo. Quando mi tocchi mi puoi infettare, quando mi parli di cose strane mi puoi cambiare. La tua stessa presenza è un pericolo. Per schermarmi da te la cultura ha eretto fortificazioni inenarrabili, barricate fisiche e psichiche. Ha bombardato dall’infanzia i sistemi immunitari stimolandoli alla guerra contro il nemico esterno: l’ambiente, la natura, il contesto, la circostanza. La realtà, orrida realtà nemica, combattuta fino a farla scomparire nella riproduzione del doppio virtuale, in una storia millenaria androcentrica senza soluzione di continuità, che va da Platone agli smartphone di sesta generazione.
Ma il bombardamento interno non basta, ci vogliono le barriere protettive esterne.
La cultura ha incellophanato corpi teneri e delicati, bisognosi di forza, li ha segregati in loculi di plastica e di metallo e li ha fatti crescere così, passando ore sedute a guardare le nuche del compagno davanti fino a costruire l’essere civile perfetto e addomesticato, cioè la vita in due metri quadri climatizzati e perennemente collegati ad uno schermo, in un’immensa Arancia Meccanica quotidiana globale.
Le barriere protettive servivano ad uno scopo principale, tenere quei corpi lontani da qualsiasi essere vivente: piante, alberi, animali, microorganismi.
Il progresso odia la vita e ama la morte, ma non la deve mai nominare, perché la morte incombe come un rimosso, e non bisogna mai ricordare che la morte fa parte della vita. Deve incombere silenziosa e la sua paura deve armare ogni azione della vita contro la vita.
La cultura dello sviluppo economico infinito ha preso sostanze viventi, le ha manipolate e fortificate, nutrendo quei corpi appena nati di cibo omogeneizzato che rendesse omogenea la trasformazione di quei corpi in automi seriali. La cultura ha vinto su quei corpi, ha calmato la loro natura selvaggia fino all’ipnosi definitiva degli schermi radioattivi permanenti a cui dedicare l’esistenza. Passare da un telefono, a un computer, a una televisione trasformando l’attività cerebrale in un corto circuito che trascina corpi stanchi e appesantiti verso la malattia finale.
Ed è riuscito a farsi chiamare cultura, sviluppo e progresso. Invece di orrore globale.
E infine, dettaglio ultimo ma non ultimo.
La cultura dell’orrore globale capitalista patriarcale tecnocratico ha isolato, ridicolizzato, schernito, sorvegliato e punito chiunque fosse refrattario a questo percorso o semplicemente lo mettesse in dubbio. Mettesse in dubbio la sceneggiata della violenza psicofisica perenne dell’economia globale sugli individui e sui popoli, sui corpi e sulle società, sui sistemi immunitari e sui cervelli.
Poi però, questa cultura è arrivata al capolinea, perché in un mondo finito non si dispone di risorse infinite. Allora, virato casualmente il millennio mentre si finivano le risorse, il gioco si è fatto più duro, profondo e radicale, come più dura, profonda e radicale è la fuoriuscita possibile dal gioco.
La civiltà urbana industriale degli ultimi tre secoli è finita, così com’è finita la civiltà greco-latina degli ultimi 2500 anni da cui è stata generata. Non produce più lo sviluppo e il benessere che prometteva come infiniti. Ma psicosi, malessere e malattie. E questo lento decadimento, prima di portare a qualcosa di nuovo, ci sta rendendo degli zombi. Stiamo accettando l’assurdo come ovvio e stiamo considerando assurdo l’ovvio. Era ovvio essere vivi ed era assurdo vivere come zombi, finchè c’erano comunità e natura. Ora è assurdo essere vivi ed è ovvio essere degli zombi.
Nella settimana di libera uscita dai loculi di cemento e dall’ipnosi tecnologica ci capita di essere vivi.
Di stare in posti belli, vivendo tempi umani, conoscendo persone nuove, rinforzando il nostro spirito che è ciò che ci tiene in vita e rafforza la nostra capacità di adattamento al sistema Terra. Passata questa settimana torniamo all’assurdo. Anche se quest’anno è veramente difficile allontanarsi dall’assurdo. L’uomo solo mascherato in una scatola di lamiere che emette pm10 è ovunque. Il politico fallito che propone trattamenti sanitari obbligatori di farmaci inesistenti ha visibilità ovunque, sul territorio nazionale. Passata questa settimana torni nella cultura disperata del capitalismo morente, il loculo climatizzato dove stare attaccato 18 h su 24 h ad un device con una maschera in faccia a fare cose inutili per padroni orrendi dicendo cose finte ai propri simili alienati per continuare la mascherata sociale.
E la mente programmata a ragionare per compartimenti stagni resetta la verità della vita per rimodularsi sugli assiomi hi-tech e bio-tech. Alienazione e sanificazione. E cinque minuti di odio per chi pensa il contrario del terrorismo mediatico perenne. Per chi pensa l’ovvio: che essere bombardati di paura multimendiale 24 ore al giorno, che essere bombardati di farmaci, psicofarmaci e vaccini in dosi perenni, che essere bombardati di pensieri ossessivi, non siano merda profumata e nemmeno l’unica merda possibile, ma solo la forma attuale di un potere violento millenario. La lenta cicuta psicosomatica da ingerire nel terzo millennio dopo Cristo secondo l’interesse del potere, o da evitare in tutti i modi secondo l’interesse di chi vuole restare vivo e restare umano.
La natura è nemica dell’uomo dominatore che sfoga i suoi presunti istinti tagliando alberi, colando cemento, prendendo a calci animali e ordinando alle donne cosa fare. La natura è nemica dell’uomo suo speculare, calcolatore, selezionatore, che ragiona a compartimenti stagni, che reprime i suoi presunti istinti mettendo il caos dell’esistente nei suoi ordini simbolici. Che vive mettendo nelle caselle le sue emozioni per non sentirle. Che vuole sentire parlare solo l’esperto a una dimensione. Che sottomette le sue psicosi con i farmaci della psiche. Che non deve mai fermare il corto circuito del suo cervello altrimenti vince l’horror vacui. Che vive nella paura. Immerso nella paura.
E per questo vive una vita di merda e odia chi vive una vita che vale la pena di vivere. Chi si abbraccia, chi cammina, chi perde il tempo, chi si bacia, chi ride, chi sente.
Chi preferisce vivere sapendo che la vita è un’avventura.
Chi non vuole smettere di vivere per fare vincere la paura.
Paura, paura, paura.
Paura della morte, paura della vita.
Paura che la vita, sfuggendo dalle dita.
Paura che diversa, sarebbe anche possibile
Paura del diverso, paura del possibile.
Altrove da questo osceno palcoscenico virtuale, un mondo diverso è possibile.
Sembra impossibile, ma è anche in costruzione. Da anni, decenni.
Ma la libertà non si può dire, perché la vera libertà è altrove dalla finta libertà del liberismo economico psicotico che ha trasformato in zombi ridens gli esseri umani.
La vita è altrove dall’alienazione virtuale comunicativa terroristica a cui è stata sottoposta la psiche.
Ognuno di noi può salvarsi, se riesce a trovare l’ossigeno della vita, dentro questo scatafascio di sistema alla deriva.
Se riesce a trovare le altre, gli altri, la bellezza, il mondo, un modo diverso di fare società, di fare cultura.
Una natura liberata, una nuova comunità in costruzione.
Come avviene in tutti i posti dove questo è stato capito, anche se le difficoltà sono tante, quasi infinite, perché nessuno è libero veramente dallo scempio creato.
Ma si inizia dai piccoli passi e si fa crescere quello che nell’inferno non è inferno.
Riporto un interessante articolo della giornalista Silvana Nuvola apparso sul sito Bellosalento.it
Salento, l’estate della svolta.
I nuovi nomi dei monumenti
di Silvana Nuvola
Lecce, 28 agosto 2020 – A fine estate possiamo annunciare con gioia che per il Salento l’estate del Covid non solo è salva, ma è stata addirittura l’estate della svolta. Simbolo di questo successo è la scelta delle amministrazioni di Lecce e Galatina – di opposta fazione nella fiction elettorale ma unite nelle politiche di sudditanza al capitale – di modificare il nome dei due monumenti rispettivamente più rappresentativi. Grazie all’indimenticabile sfilata di moda pinkwashing svoltasi nella capitale del Salento lo scorso 22 luglio e seguita da tutta Italia, è stato scelto con lungimiranza e acume politico di rinominare la splendida Piazza Duomo, che da oggi diventa giustamente Piazza Dior. La scelta, proposta dal sindaco Michele Salvemini e votata all’unanimità da tutta la giunta, è stata accompagnata dal plauso di tutte le forze politiche regionali e nazionali, ad eccezione di una piccola parte di complottisti insurrezionalisti che ha sostenuto una oziosa querelle sui muri della città, basata sulla fake news secondo cui sarebbero state utilizzate in modo inappropriato le parole di una terrorista degli anni Settanta, tale Carla Lonfo.
Pubblicato in Scrivi la città n. 2 – I racconti di Arcireport
marzo 2008
di Gianluca Ricciato (2007)
“al nostro per sempre e ai nostri mai
alle dipendenze allo stile che ci rende noi”
Baustelle
Giorni un po’ magici questi, giorni di persone nuove, di sorprese. Giorni di progetti su progetti, progettare come fare nuovi progetti, e i soliti incartamenti.
Giorni senza una lira né un euro in un sottodebito da incubo se non fosse ormai una barzelletta e non covasse una folle e dolce speranza. Che ci accompagna a periodi, che va e viene.
Ieri mattina la sveglia è suonata alle sette anche se era sabato, è suonata perché alle otto del diciassette novembre c’era il raduno per il treno speciale che portava Bologna a Genova. I ritorni e le partenze, ma io ho spento la sveglia disfatto dalla sera prima e mi sono rimesso a dormire. Mi sono risvegliato a mezzogiorno e mezzo, sono andato in cucina ho acceso la radio e ho spostato la lancetta dal canale alternativo popolare che mandava musica a quello di Radio Città 103. In realtà ora si chiama Radio Città Fujiko, ma allora nel duemilauno era 103 e i nastri d’archivio che stavano mandando erano di 103.
Mi risale un brivido, quello di questi anni, del dentro e del fuori, e mille immagini di me di noi e degli altri. Il mondo che prende un senso assurdo per chi non lo condivide – “ma tu fai la cosa giusta te l’ha detto quel calore” – gli oggetti parlano di cose nuove, tutto quello che hai intorno parla, il fornello manda messaggi di ecologia profonda e le dolci memorie fuorilegge e fuorimorale sono rimaste incise sulle mattonelle degli anni ’70 di questa casa in affitto, degradata ma in un quartiere bene della città dei ciccioli. La nuova era, la nuova etica nostre assorbite e triturate dal vecchio mondo delle rappresentazioni che mentre implode su se stesso si fa il restyling facendosi chiamare “società del 2000” e intanto inventa ogni mese una nuova generazione di oggetti radioattivi, e intanto ammicca e sorride maligno alle nostre giovani facce solidali olistiche e rinnovabili perché spera che con le nostre pratiche lo manterremo in vita, spera che il nostro ordito continuerà a tessere le trame di una comunità umana disintegrata dal doppio mediatico. A patto che facciamo i bravi però, che non rompiamo troppo le palle con gli stili di vita strani e con l’occupazione delle strade.
Dovevo partire perdìo, lo so, ma non essere egoista, la tua presenza non è fondamentale, fai qui quello che non potresti fare là, condividi con chi hai intorno, contatta contagia l’ambiente di questo spirito magico che fu la tua salvezza. Che distrusse i modelli unici una volta per tutte, sei anni fa. Così ti salverai dal rimpianto di non essere partito. E dalla perdita della ragazza che stava con te in quel viaggio di sei anni fa, con cui avevi fatto tutte quelle cose che per i tuoi compatrioti sono assurdità. Ma per te sono quel folle sogno che in questi giorni sta tornando a bussarti alla porta.
Alla radio si collegano con un tipo che sta sul treno speciale partito da Bologna. Sono ancora a Modena. Mi cambia lo scenario nella mente, devo partire, posso ancora farcela. Basterebbe che qualcuno mi accompagnasse a Modena ora, ma comunque questo vuol dire che codesto treno non arriverà mai per le quattordici e trenta a Genova, se è ancora a Modena all’una, quindi hai tutto il tempo. Chiamo Elio e chiedo di Leopoldo. È già partito. Intanto appare in corridoio Cristiana, non capisco bene se ha dormito qui ma comunque dà per scontato il fallimento dei nostri propositi di ieri sera, di partire di buon’ora insieme stamane qui da via Centopedoni verso la stazione dei treni. E lei sta molto più disfatta di me, non vuol saperne nemmeno di restare in posizione eretta, le scoppia la testa e ha la faccia da vomito. Con Elio ci sentiremo dopo, capisco in una dozzina di secondi che la mia ultima chance è già partita anche se poco prima, solo un’ora fa, ma comunque già partita. Ricordo a me stesso che per fare qualcosa devi crederci veramente, meno è popolare e più devi crederci senza lasciarla in pasto al caso o farla soccombere nell’inerzia del quotidiano.
Torno in cucina, metto l’acqua sul fuoco per una tisana al carciofo estemporanea ma che il mio fegato mi ha esplicitamente richiesto e mi siedo accanto alla radio accesa. Mandano l’interrogazione a Fournier, il questore pentito, mi catapulto in camera dove dorme ancora l’ospite precario di turno e prendo la cassettina ancora imballata. Perdo solo le prime battute dell’intervento, la sostanza è tutta qui nella cassettina. Entro nel vivo del merito della questione di oggi, nei contenuti della manifestazione. L’atmosfera si sta propagando per la casa. Dopo Fournier Radio Città manda lo storico pezzo dell’irruzione in diretta al Media Center registrato ai microfoni di Radio Gap, e io ovviamente continuo a tenere in REC la cassetta anche se ce l’ho già in tanti altri formati più moderni questa registrazione, ma repetita iuvant come sa bene chi riempie ogni giorno le testoline nostre di informazioni inutili. E poi la cassetta sa di antico, sa di movimento, di nostalgia, evoca tempi che furono mai vissuti e da cui provengono queste idee che stiamo vivendo oggi.
In questo mentre appare Claudio, che vede la scena di me seduto curvo accanto alla radio e sente i microfoni concitati degli attivisti radiofonici del duemilauno che stanno per essere invasi dai manganelli. Capisco che la posizione in cui mi trovo può dare adito a fraintendimenti e mi gioco la carta abbastanza sicura che lui non abbia mai sentito questo storico pezzo, o magari l’ha cancellato dalla mente perché non se l’è riascoltato ossessivamente cento-mille-diecimila volte come me in questi anni.
Parte la commedia:
– Che cos’è? La radiocronaca da Genova?
– Sì
“…ci dicono che siamo staccati…uno sgombero in diretta qui a radiogap…”
– Radio Kappa?
– Radio Gap
“…non ci devono fare niente, non abbiamo nulla da nascondere…no, non siamo staccati…”
– O madonna di nuovo, sta di nuovo succedendo casino?
Non dico niente, Claudio sbianca mentre si prepara il caffè, io gongolo in silenzio.
“…mandate dappertutto la notizia, tutti devono sapere cosa sta facendo questo stato criminale…”
Mi basta pensare a quello che dicono per restare serio e continuare la mia messinscena. Ho pensato spesso a cosa abbia provato chi ha sentito in diretta quel pezzo, dato che io l’ho sentito dopo, quando era già storia perché in quel momento ero a Brignole buttato a terra ad aspettare il treno del ritorno a Bologna. Ora lo sto vedendo, Claudio è veramente turbato.
“…ecco ci sono, stanno per sfondare…mani in alto e spalle al muro, non abbiamo nulla da nascondere, uno sgombero in diretta a radiogap……ssshhh…”
Bene, questa era la registrazione dell’irruzione alla scuola Diaz del ventuno luglio duemilauno
Prende sempre lo sconcerto nel leggere le vicende giudiziarie innescate il 22 giugno 1993 con l’arresto del ministro della sanità Francesco De Lorenzo, e poco dopo del direttore del sistema farmaceutico Duilio Poggiolini. Oppure nell’evocare espressioni ormai cult della storia italiana legata al capitolo sanità di Tangentopoli: «sua sanità», «sangue infetto», «malasanità», «Re Mida della sanità». Così è almeno per chi come me in quell’epoca era adolescente e ha assistito in diretta al crollo dall’interno di un sistema politico, svergognato da uno dei suoi poteri costituzionali, il potere giudiziario. E tutta la contraddittorietà che questo fatto si porta dietro in quanto «rivoluzione a suon di manette» e tutta intestina ai poteri dello Stato italiano.
Lo sconcerto però si moltiplica nell’apprendere che oggi quei nomi, quelle aziende private, quelle multinazionali del farmaco, quelle modalità che Poggiolini definì eufemisticamente come un adagiarsi «in quella che voi giudici chiamate situazione di corruzione ambientale»(1) sono in buona parte ancora protagoniste dell’attualità. Lo sconcerto si trasforma allora in dubbio consistente: che quelle modalità di corruzione del sistema sanitario da parte di aziende private interessate principalmente al profitto allora fosse solo agli albori, mentre ora, nel 2020 della pandemia globale, è a pieno regime. E che la rivoluzione italiana delle manette, in questo caso, sia stata solo un tentativo ammirevole ma inconsistente di fermare un sistema di potere troppo forte: la globalizzazione vincente delle multinazionali chimico-farmaceutiche.
Un tentativo dettato in quel momento dallo scoprire però qualcosa di troppo forte, letteralmente osceno: «Le tangenti sul prezzo delle medicine… vuol dire taglieggiare i vecchi, i malati, i più deboli», dissero i giudici allora, allibiti. (2)Continua a leggere “La malattia cronica della sanità italiana”
Irrompe nel discorso politico di queste settimane il testo della Confluencia femminista “Un’economia femminista per un mondo in trasformazione”, a ricordarci come ecologia e femminismo dovevano essere sovversione del capitalismo, non giardinaggio e passeggiate, e nemmeno occasioni di assimilazione nel sistema senza mettere in discussione il logocentrismo del patriarcato tecnocratico. Agroecologia, ecofemminismo e mediattivismo: le parole scippate dell’inizio millennio antiglobal sono state state pratiche di vita smorzate? Ci hanno davvero rubato l’agibilità politica in questi venti anni di millennio globalizzato?
Quando una insopportabile disciplina è stata sopportata solo la musica ti può salvare. Sparare musica sulla guerra psichica è l’unica metafora che accetteremo, ora e sempre. 50 canzoni per un lockdown scelte in modo arbitrario. O forse un senso ce l’hanno. Dall’Italia al resto del mondo, ma senza pulsioni patriottiche. Sono state la mia colonna sonora di questi mesi.
Ospito il testo che la Confluencia Femminista ha pubblicato su Trasformadora.org, il sito del Forum Sociale Mondiale delle Economie Trasformative che si sarebbe dovuto tenere a fine giugno a Barcellona. Queste riflessioni sono di vitale importanza, ed è necessario che emergano anche in Italia, visto anche lo stato di emergenza politica e culturale, appunto. Gianluca
Riflessioni della Confluenza Femminista verso il Forum Sociale Mondiale delle Economie Trasformative, di fronte alla pandemia da COVID19
UN’ECONOMIA FEMMINISTA PER UN MONDO IN TRASFORMAZIONE
Nelle eccezionali condizioni di distanziamento sociale con cui si cerca di far fronte alla pandemia da COVID19, le nostre società stanno affrontando ogni giorno le sfide della cura della vita in mezzo all’emergenza e all’incertezza, senza perdere di vista il futuro immediato in un mondo che già non è né sarà più lo stesso, e che è in rapida trasformazione.
Sono le donne che stanno rispondendo per prime, articolando lavori, saperi e proposte a partire da una logica della “cura” – che il femminismo assume come concetto chiave – consapevoli delle vecchie e nuove disuguaglianze e ingiustizie, esacerbate ulteriormente in questo momento. In queste settimane, ci si sta rendendo conto che non ci può essere vita né economia senza “cura”, come pure del grado di squilibri del capitalismo neoliberista che ci ha condotto a questa crisi.
Tra problemi e alternative che si mescolano in modo intenso e contraddittorio, si rafforza l’urgenza di costruire un’economia per la vita.
Quindi:
• Nella “vita di prima” abbiamo denunciato lo sfruttamento del lavoro delle donne e la violenza sessista che caratterizzano questo sistema e che oggi si accentuano. Il confinamento domestico ha significato concentrare in spazi spesso precari persone, attività e faccende vecchie e nuove.
• Ai lavori di cura abituali ora si sono aggiunte nuove attività come il “telelavoro” e lo spostamento virtuale della scuola a casa. Questo schema, che continuerà con qualche sfumatura nella prossima fase del “distanziamento sociale”, lungi dal rappresentare un miglioramento nel sistema di assistenza reale, costituisce invece una battuta d’arresto nelle forme già limitate di organizzazione dei servizi quanto a risorse, tempi e spazi. Questo, tanto per le reti familiari e sociali, che per le istituzioni prestatrici di servizi e per gli istituti scolastici – che in alcuni casi includevano anche il servizio di mensa.
• A questo si aggiunge il rafforzamento di una visione della famiglia nucleare, androcentrica ed etero-patriarcale come nucleo dell’organizzazione sociale ed economica, che implica anche una recrudescenza della violenza di genere, come dimostra il moltiplicarsi delle denunce in molti paesi. Così, mentre si riconosce l’importanza e la centralità dei lavori di cura per la vita e per l’economia, si assiste contemporaneamente anche a un arretramento delle loro condizioni. Cambiare questa situazione è una priorità che implica, allo stesso tempo, pensare a una
ripresa economica di tipo nuovo.
• Nei servizi sanitari, da sempre femminilizzati e in molti casi precari a causa dei tagli alla spesa pubblica e della privatizzazione neoliberista, le donne svolgono la maggior parte del lavoro di cura e di assistenza alle vittime di COVID19. Con giornate di lavoro estenuanti, in condizioni di lavoro precarie e protezione minima, esposte al contagio e non di rado alla morte. La priorità di un sistema di salute pubblica universale, che garantisca questo fondamentale diritto umano, va di pari passo con la necessità di superare questa disparità di condizioni degli operatori sanitari, così come di ridefinire il profilo privato e commerciale dell’industria farmaceutica, che continua a far sentire il suo potere corporativo, ignaro della vita, nel bel mezzo della crisi.
• Mentre le catene di supermercati e le industrie alimentari traggono profitto da questa situazione che favorisce i settori con potere di acquisto, le economie contadine e le esperienze di economia sociale, solidale e comunitaria stanno sviluppando moltissime iniziative per garantire a tutta la popolazione i prodotti alimentari di base. È evidente l’importanza strategica della produzione locale, della sua capacità di risposta – basata su reti socio-produttive, sulla solidarietà e la complementarità – che ora richiede forme di presenza differenti, per le restrizioni della quarantena. In altre parole, si rivela il potenziale delle esperienze promosse dalle donne rispetto all’attenzione ai bisogni fondamentali della riproduzione e della cura della vita.
• La pandemia mette a nudo e accentua le disuguaglianze, diventando al tempo stesso pretesto per un’escalation di forme di fascismo governativo e sociale. La vulnerabilità economica comporta una netta diminuzione o sospensione del reddito, elevate possibilità di contagio e minima attenzione per i lavoratori precari, per le donne migranti e rifugiate, in carcere, ecc. L’impennata di classismo, razzismo e xenofobia è arrivata al punto di incolpare queste fasce di popolazione per la diffusione del virus e di diffondere, direttamente o velatamente, l’idea che esistano vite usa e getta, inutili. Vengono incoraggiati atteggiamenti sociali di sorveglianza, non di solidarietà.
• Il distanziamento sociale ha segnato una inflessione nelle dinamiche di mobilitazione sociale degli ultimi mesi contro il neoliberismo. Nel mezzo delle restrizioni alla mobilità, nuove iniziative stanno prendendo forma in relazione diretta con l’attenzione alle esigenze più urgenti di cibo e salute. Le donne hanno attivato forme alternative di espressione, contatto e azione solidale, non sulla scala delle cucine popolari o simili di altri periodi di crisi, ma che supportano, ad esempio, l’acquisto di alimenti agro-ecologici da donne contadine, sapone e mascherine da produttori dell’economia solidale, e la loro distribuzione a fasce di popolazione non protetta.
Di fronte all’opposizione “vita o morte” che ha sollevato la pandemia, risultano evidenti gli elementi per un’agenda trasformativa e sta crescendo la consapevolezza della necessità di un’economia per la vita, non contro la vita.
Sebbene ciò sia evidente, assistiamo a programmi inerziali, che insistono sul trasferimento di risorse pubbliche e sociali alle aziende, per salvare “i mercati”, reiterano formule di debito che esercitano una ulteriore pressione sulle economie nazionali e familiari già sovraindebitate.
Vediamo anche reazioni di altro profilo, che hanno adottato misure di protezione sociale,
migliorando l’accesso alla salute e alle cure, garantendo redditi di base, trasferimenti di denaro o ferie retribuite per i lavoratori/trici, sostenendo in particolare il personale sanitario e assistenziale, ecc., cioè misure necessarie ma non sufficienti, data l’entità dei problemi precedenti.
A partire dagli ambienti economici e sociali impegnati nella riproduzione della vita, sta prendendo forza un’agenda di cambiamento delle priorità, delle forme di organizzazione della produzione, degli scambi, del consumo. Oltre all’evidente fallimento del capitalismo che si sta manifestando nella pandemia, esiste una vasta gamma di esperienze che fornisce supporto e strumenti per proposte trasformative: nuova architettura finanziaria, giustizia fiscale, commercio equo, valute alternative, economia sociale e solidale, agroecologia, sovranità alimentare, eccetera.
Data la priorità di soddisfare le necessità primarie di alloggio, istruzione, reddito di base, salute, per tutti e tutte, è necessario un consenso sociale rispetto all’imperativo di tassare le grandi ricchezze per andare verso forme alternative di ripresa economica. Il che comprende la ridefinizione dei lavori socialmente necessari e dei lavori che sono invece biocidi, i quali dovranno essere riconvertiti in un nuovo schema di lavoro e produzione in chiave eco-femminista.
Resistiamo collettivamente, non abbandoniamo lo spazio pubblico, ci moltiplichiamo negli altri. Stiamo disegnando una nuova economia che andiamo tessendo con pazienza e che ci condurrà verso un’umanità migliore.
UN’ECONOMIA PER LA VITA NON CONTRO LA VITA
Un ringraziamento particolare per i contributi a Alejandra Santillana Ortiz – Instituto de Estudios Ecuatorianos e Observatorio de Cambio Rural, Analía Woloszczuk – Universidad de Huelva, Alicia Rius Buitrago – ESS REAS, Gina Vargas – AFM, Magdalena León – REMTE, Miriam Nobre – SOFMarcha Mundial de Mujeres, Rosy Zúñiga – CEAAL; e ad Alejandra Scampini – DAWN per il coordinamento e la redazione.
Via dello Scalo di San Lorenzo, 1943 – sarahegain.wordpress.com
Partire da sé e non farsi trovare dal PTS
Gianluca Ricciato
SAN LORENZO
In questi giorni mi è tornata alla mente e alle orecchie una canzone di De Gregori del 1982, “San Lorenzo”, dedicata alle conseguenze dei bombardamenti americani a Roma del 19 luglio 1943. Quando la conobbi, durante la mia adolescenza, la consideravo una canzone minore e così l’ho sempre considerata fino al giorno in cui la ascoltai per caso passare in radio, nella casa dove abitavo in zona Nomentana, poco tempo fa. Ero a Roma da un paio d’anni, e già la terza strofa mi paralizzò: “Sconquassato il Verano, dopo il bombardamento”. Fino a quando non vivevo a Roma, il Verano era semplicemente come per tutti il famoso cimitero e bla bla. Dopo invece è diventato principalmente la fermata del bus o del tram dove scendo sempre per andare a San Lorenzo, cioè uno dei luoghi da me più frequentati a Roma. Il luogo in cui un giorno ho litigato animatamente con un autista dell’Atac, dove c’è il locale in cui ho passato serate estive a sentire Latin Jazz, che ha fatto da cornice a sogni e drammi importanti della mia vita, a incontri e addii.
Sapevo del bombardamento degli Americani, non bene, non l’avevo mai approfondito, lo consideravo uno dei tanti episodi inevitabili che l’Italia ha dovuto attraversare per liberarsi dal nazifascismo. Ma non voglio fare analisi storiche qui. Subito dopo averla risentita in radio, sono andato ad ascoltarla bene questa canzone. Ho trovato un video su Youtube con le foto di Roma devastata: San Lorenzo, il Tiburtino, il Prenestino. Il Nomentano, casa mia. Mi sono messo a piangere, senza senso, per un evento del 1943 e per una vecchia canzone che conoscevo già da vent’anni.
Zollino, 8 aprile 2020 – Due tipi sospetti sono stati identificati dalle telecamere a circuito chiuso, installate dalle forze di polizia nei pressi di un’aiuola. Si tratta di una leguminosa, nota come «Pisello nano», 4 mesi, di Zollino, con numerosi precedenti penali: manifestazioni di vita non autorizzate, attività finalizzate allo spaccio di sostanze altamente nutritive, dispersione illegale di azoto nel terreno e turbamento dell’ordine multinazionale precostituito. Continua a leggere “Coronavirus: denunce e multe. Nei guai due vegetali con precedenti penali”
Aprile 2020. Siamo in cattività. Costrette e costretti a casa e con una marea di relazioni e comunicazioni mediate e non dirette. Quelle dirette, i rapporti in carne e ossa con familiari o conviventi risentono di questa cattività. Ci troviamo bloccate e bloccati dove eravamo nel momento in cui non abbiamo più potuto circolare. Magari per molti di noi sarebbe stato diverso 6 mesi o un anno fa, diversissimo.
Siamo bombardati. E non uso a caso questo termine: siamo assediati, minacciati, terrorizzati, attaccati (volgetele anche al femminile).
Tutte queste espressioni fanno parte di una macro-espressione che si fonda su un grande concetto metaforico: la discussione è una guerra. Accanto a questa grande metafora, che sottende alla comunicazione soprattutto in questi giorni, ne abbiamo un’altra: la malattia è una guerra. Continua a leggere “La metafora della guerra”
«”Tutte le passate oligarchie hanno dovuto rinunziare al potere o perché si sono irrigidite, o perché si sono addolcite. Sia che divenissero, insomma, troppo sciocche o troppo arroganti, non furono capaci di adattare se stesse alle circostanze, e vennero rovesciate: se invece diventarono liberali e per debolezza fecero delle concessioni allorché avrebbero, invece, dovuto usare la forza, furono rovesciate anche allora. Vale a dire che esse caddero sia per la consapevolezza della propria natura sia per la non consapevolezza di essa. È appunto opera del Partito l’aver prodotto un sistema filosofico nel quale entrambe le condizioni possono esistere simultaneamente. Ed infatti non si può pensare ad altro fondamento sul quale il dominio del Partito avrebbe potuto raggiungere appunto quel suo carattere di permanenza. Se si vuol comandare e persistere nell’azione di comando, bisogna anche essere capaci di manovrare e dirigere il senso della realtà. Poiché il segreto del comando consiste, per l’appunto, nel combinare, fra loro, da un lato la fede nella propria infallibilità e dall’altro la capacità di apprendere da passati errori.
«Noi siamo i sacerdoti del potere» disse. «Iddio è il potere. Ma in questo momento, per quanto riguarda te, il potere è soltanto una parola. Siamo arrivati al punto in cui è bene tu abbia una qualche idea di che cosa realmente significa il potere. La prima cosa che tu devi capire è che il potere è collettivo. L’individuo raggiunge il potere solo in quanto cessa di essere individuo. Tu conosci lo slogan del Partito: “La libertà è schiavitù”. Hai mai pensato che si può rovesciarlo? La schiavitù è libertà. Fino a quando è solo e libero, l’essere umano è sempre condannato alla sconfitta. Deve essere così, perché ogni essere umano è condannato a morire, il che costituisce la maggiore di tutte le possibili sconfitte. Ma se egli riesce a fare una completa, totale sottomissione e rinunzia, se riesce a evadere dalla sua stessa identità, se si può completamente immedesimare nel Partito, in modo da fare che egli sia il Partito, solo allora riesce a essere onnipotente e immortale. La seconda cosa che tu devi capire è che il potere significa il potere sugli uomini. Sul corpo… ma soprattutto sulla mente. Il potere sulla materia, quella che tu chiami realtà esterna, non è importante. Il nostro controllo della materia è già assoluto e totale.» Continua a leggere “Una settimana nel 1984 (6) # I sacerdoti del potere”
«La neolingua era la lingua ufficiale dell’Oceania ed era stata messa a punto per le esigenze ideologiche del Socing, o Socialismo inglese. Nel 1984 non c’era ancora nessuno che ne facesse uso, tanto nella lingua parlata che in quella scritta, come suo unico mezzo di comunicazione. Gli articoli di fondo del «Times» erano scritti in neolingua, ma si trattava di un tour de force al quale soltanto uno specialista poteva sobbarcarsi. L’auspicio era che attorno al 2050 potesse sostituire totalmente l’archelingua, vale a dire l’attuale lingua standard. Nel frattempo, comunque, guadagnava terreno abbastanza celermente, dal momento che tutti i membri del Partito tendevano, nei loro discorsi di ogni giorno, a fare un uso sempre più ampio di parole e strutture grammaticali della neolingua. Continua a leggere “Una settimana nel 1984 (5) # Neolingua”
«Quando fai all’amore, spendi energia; e dopo ti senti felice e non te ne frega più di niente. Loro non possono tollerare che ci si senta in questo modo. Loro vogliono che si bruci l’energia continuamente, senza interruzione. Tutto questo marciare su e giù, questo sventolio di bandiere, queste grida di giubilo non sono altro che sesso che se ne va a male, che diventa acido. Se sei felice e soddisfatto dentro di te, che te ne frega del Gran Fratello e del Piano Triennale, e dei Due Minuti di Odio, e di tutto il resto di quelle loro porcate?»
«Come si sarebbe potuto distinguere quello che era vero da quel che non lo era? Poteva essere vero che la media degli individui stava meglio ora che non prima della rivoluzione. La sola prova che era vero, invece, il contrario, era una specie di muta protesta che si sentiva nelle ossa, un sentimento istintivo che le condizioni in cui si viveva erano intollerabili e che ci doveva essere stata un’epoca precedente in cui esse erano state diverse. Lo colpì il fatto che la vera caratteristica della vita moderna non consisteva nella sua crudeltà o nella sua insicurezza, ma solo nella sua nudità, nel suo squallore, in quella sua incapacità d’ascoltare e d’apprendere. La vita, se si faceva tanto di guardarsi attorno, non rassomigliava in nulla non solo a ciò che proclamavano le menzogne del teleschermo, ma nemmeno a quegli ideali che il Partito cercava di raggiungere. Una gran parte della vita, anche per un membro del Partito, era neutrale, fuori di qualsiasi interesse o contingenza politica, semplicemente una serie di atti, come lo sgobbare in un lavoro monotono e privo di interesse, sbracciarsi per un posto nella metropolitana, rammendare un calzino bucato, elemosinare una pastiglia di saccarina, mettere da parte una cicca. Continua a leggere “Una settimana nel 1984 (3) # La verità”
«Il primo e il più elementare stadio di tale disciplina, e che si può insegnare anche ai fanciulli in età più tenera, si chiama, in neolingua, lo stopreato. Lo stopreato sta a rappresentare, in sostanza, la facoltà di arrestarsi in modo rapido e deciso, e come per istinto, sulla soglia di qualsiasi pensiero pericoloso. Esso include la capacità di non cogliere le analogie, di non riuscire a percepire errori di logica, di equivocare anche sugli argomenti più semplici, ove essi siano incompatibili con il Socing, e soprattutto d’esser presto affaticati e respinti da qualsiasi tentativo di elaborare una dialettica di pensiero che sia suscettibile di condurre in una direzione eretica. Stopreato significa, in sostanza, stupidità protettiva. Ma la stupidità non basta. Al contrario la piena ortodossia richiede un controllo sopra la propria capacità induttiva pari a quello che si suppone debba avere un contorsionista sul suo corpo.Continua a leggere “Una settimana nel 1984 (2) # Bispensiero”
«La cosa orribile dei Due Minuti d’Odio era che nessuno veniva obbligato a recitare. Evitare di farsi coinvolgere era infatti impossibile. Un’estasi orrenda, indotta da un misto di paura e di sordo rancore, un desiderio di uccidere, di torturare, di spaccare facce a martellate, sembrava attraversare come una corrente elettrica tutte le persone lì raccolte, trasformando il singolo individuo, anche contro la sua volontà, in un folle urlante, il volto alterato da smorfie. E tuttavia, la rabbia che ognuno provava costituiva un’emozione astratta, indiretta, che era possibile spostare da un oggetto all’altro come una fiamma ossidrica. Continua a leggere “Una settimana nel 1984 (1) # Due Minuti d’Odio”
Sgomberi d’agosto: la polizia chiude anche il “36 occupato”[1]
Dopo le case del Pratello e di via Mascarella sgomberate venerdì scorso, ieri le forze dell’ordine sono tornate nuovamente in azione a Bologna. All’alba hanno circondato la zona universitaria, hanno piazzato i blindati e iniziato a murare gli ingressi del “36 Occupato”: una sala studio autogestita dal ’91 e riconosciuta per le numerose iniziative politiche e culturali. Continua a leggere “L’ultimo anno (finale) – Appendice sul 36 occupato”