La critica femminista della scienza

«La natura nella concezione di Bacone doveva essere “rincorsa nelle sue peregrinazioni”, “costretta a servire” e resa “schiava”. Essa doveva essere “messa in ceppi” e scopo dello scienziato doveva essere quello di “strappare con la tortura i suoi segreti”. Pare che gran parte di queste immagini violente siano state ispirate dai processi per stregoneria, che erano frequenti al tempo di Bacone. In quanto ministro della Giustizia sotto il re Giacomo I, Bacone aveva grande familiarità con tali processi, e poiché la natura era considerata di solito femmina, non sorprende che egli trasferisse nei suoi scritti scientifici le metafore usate nei tribunali. In effetti la sua concezione della natura come donna alla quale si debbano strappare i segreti con la tortura per mezzo di dispositivi meccanici richiama alla mente con grande evidenza la diffusione della tortura alle donne nei processi per stregoneria dell’inizio del Seicento»

Carolyn Merchant 

«La morte della natura. Donne, ecologia e Rivoluzione scientifica. Dalla Natura come organismo alla Natura come macchina», (1988)



Scienza e modelli di sviluppo

di Elisabetta Donini

La critica femminista della scienza degli anni ’70 e ’80 è ancora attuale? Ed è ancora in grado di misurarsi efficacemente con i fenomeni di maggiore portata della realtà mondiale contemporanea, segnata da squilibri sempre più profondi e da una rilegittimazione sempre più diffusa e devastante degli orizzonti della violenza armata e della guerra?

I lavori di Evelyn Fox Keller, Carolyn Merchant, Sandra Harding, Londa Schiebinger sono maturati entro il contesto della cultura occidentale, mettendone però radicalmente in discussione uno dei pilastri fondanti: il carattere neutro, oggettivo ed universale della conoscenza scientifica così come è andata costituendosi in epoca moderna, con il suo risvolto di volontà di dominio tecnico e poi tecnologico sulla natura. In sede storica ed epistemologica, scavare nel nesso tra la parzialità di genere nel segno del maschile e la pretesa univocità di quella forma di conoscenza/intervento è stata l’espressione di una soggettività politica più ampia, che non soltanto non si riconosceva nei rapporti invalsi tra donne e uomini, ma che a partire dalle istanze di liberazione in quanto donne aspirava a contribuire al cambiamento degli assetti generali del mondo.

Nel corso degli ultimi quindici anni l’incisività di tale prospettiva si è a mio parere radicalmente appannata, sia perché tra le stesse donne che sono entrate sempre più numerose nella ricerca scientifica gli interrogativi originari sollevati dalla critica femminista non paiono destare grande interesse sia perché intanto sono invece diventati più incalzanti altri modi di misurarsi con il rapporto tra scienza, potere e modelli di sviluppo, non riducibili a quelli di cui si era nutrito il femminismo nei paesi dell’Occidente. Le vicende della cosiddetta mondializzazione dell’economia hanno infatti fatto esplodere la contraddizione tra la pressione ad assoggettare l’intero pianeta al sistema di mercato e agli stili di vita dei paesi che si autodefiniscono come “sviluppati” e l’insostenibilità di questo stesso sistema e questi stili su scala globale. Perciò voci dal Sud del mondo come quella di Vandana Shiva pongono questioni in cui la critica della volontà di dominio intrinseca alla scienza moderna si richiama si alla parzialità di genere di quest’ultima, ma in un quadro in cui è altrettanto cruciale ragionare del carattere colonialistico e imperialistico del progetto socio-economico cui la scienza moderna è costitutivamente connessa.

Se Evelyn Fox Keller o Carolyn Merchant sono state una guida preziosa per molte donne della mia generazione per rileggere la nascita del metodo sperimentale alla luce del linguaggio da caccia alle streghe con cui Francesco Bacone esaltava la penetrazione violenta nel corpo della natura per strapparne i segreti, non credo irrilevante che oggi compaiano studi (1) in cui quel medesimo Bacone spicca piuttosto come coprotagonista del processo fondativo del capitalismo e del colonialismo inglese tra ‘500 e ‘600, da un lato arricchendosi con la partecipazione in patria all’espropriazione/appropriazione di beni fino ad allora comuni (la vicenda delle enclosures) e oltre Oceano allo sfruttamento delle terre di conquista e dall’altro lato proclamando una Holy War contro ogni ribelle al nuovo dominio. Né credo che, allora come oggi, possano essere condonati come “incidenti di percorso” o spiacevoli quanto incolpevoli “effetti collaterali” i milioni di persone uccise, le distruzioni dell’ambiente, le cancellazioni di culture e modi di vita attraverso cui sono prosperati gli imperi.

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La natura è mia nemica

La natura è mia nemica.

È nemica l’umidità rimasta su quest’amaca dalla pioggia di ieri, è nemico quest’albero che potrebbe cadere e farmi rotolare in fondo alla valle. È nemica quest’ape che mi ronza intorno e potrebbe farmi del male, è nemica questa catena montuosa che ho intorno da cui potrebbero franare tonnellate di cose. È nemica questa terra che potrebbe aprirsi in due com’è successo esattamente in questo punto poco più di dieci anni fa, cioè una frazione di secondo fa per i tempi della Terra.

Io sono la cultura, la natura è nemica della cultura. Una nemica da addomesticare.

La cultura si difende alzando muri dietro cui si barricano menti, corpi e sistemi immunitari, questa è la sua forza. Quando la cultura invece nasce senza opposizione alla natura è anche lei nemica. Quando queste persone hanno deciso che potevano tornare a ripopolare un borgo a mille metri sul livello del mare, disabitato e polverizzato dalla civiltà urbana industriale, e potevano farlo acquistando terre collettive, che non fossero né pubbliche né private, né dello Stato né delle imprese, cioè i due padroni oppressori complementari e fintamente distinti: a quel punto sono diventati nemici.

Le persone che stanno insieme sono nemiche. Si guardano, si toccano e si trasmettono il virus della comunità.

Bisogna schermare e mascherare le persone che si incontrano. Tu, altro da me, sei nemico a me. Sei un pericolo perché sei vivo. Quando mi tocchi mi puoi infettare, quando mi parli di cose strane mi puoi cambiare. La tua stessa presenza è un pericolo. Per schermarmi da te la cultura ha eretto fortificazioni inenarrabili, barricate fisiche e psichiche. Ha bombardato dall’infanzia i sistemi immunitari stimolandoli alla guerra contro il nemico esterno: l’ambiente, la natura, il contesto, la circostanza. La realtà, orrida realtà nemica, combattuta fino a farla scomparire nella riproduzione del doppio virtuale, in una storia millenaria androcentrica senza soluzione di continuità, che va da Platone agli smartphone di sesta generazione.

Ma il bombardamento interno non basta, ci vogliono le barriere protettive esterne.

La cultura ha incellophanato corpi teneri e delicati, bisognosi di forza, li ha segregati in loculi di plastica e di metallo e li ha fatti crescere così, passando ore sedute a guardare le nuche del compagno davanti fino a costruire l’essere civile perfetto e addomesticato, cioè la vita in due metri quadri climatizzati e perennemente collegati ad uno schermo, in un’immensa Arancia Meccanica quotidiana globale.

Le barriere protettive servivano ad uno scopo principale, tenere quei corpi lontani da qualsiasi essere vivente: piante, alberi, animali, microorganismi.

Il progresso odia la vita e ama la morte, ma non la deve mai nominare, perché la morte incombe come un rimosso, e non bisogna mai ricordare che la morte fa parte della vita. Deve incombere silenziosa e la sua paura deve armare ogni azione della vita contro la vita.

La cultura dello sviluppo economico infinito ha preso sostanze viventi, le ha manipolate e fortificate, nutrendo quei corpi appena nati di cibo omogeneizzato che rendesse omogenea la trasformazione di quei corpi in automi seriali. La cultura ha vinto su quei corpi, ha calmato la loro natura selvaggia fino all’ipnosi definitiva degli schermi radioattivi permanenti a cui dedicare l’esistenza. Passare da un telefono, a un computer, a una televisione trasformando l’attività cerebrale in un corto circuito che trascina corpi stanchi e appesantiti verso la malattia finale.

Ed è riuscito a farsi chiamare cultura, sviluppo e progresso. Invece di orrore globale.

E infine, dettaglio ultimo ma non ultimo.

La cultura dell’orrore globale capitalista patriarcale tecnocratico ha isolato, ridicolizzato, schernito, sorvegliato e punito chiunque fosse refrattario a questo percorso o semplicemente lo mettesse in dubbio. Mettesse in dubbio la sceneggiata della violenza psicofisica perenne dell’economia globale sugli individui e sui popoli, sui corpi e sulle società, sui sistemi immunitari e sui cervelli.

Poi però, questa cultura è arrivata al capolinea, perché in un mondo finito non si dispone di risorse infinite. Allora, virato casualmente il millennio mentre si finivano le risorse, il gioco si è fatto più duro, profondo e radicale, come più dura, profonda e radicale è la fuoriuscita possibile dal gioco.

La civiltà urbana industriale degli ultimi tre secoli è finita, così com’è finita la civiltà greco-latina degli ultimi 2500 anni da cui è stata generata. Non produce più lo sviluppo e il benessere che prometteva come infiniti. Ma psicosi, malessere e malattie. E questo lento decadimento, prima di portare a qualcosa di nuovo, ci sta rendendo degli zombi. Stiamo accettando l’assurdo come ovvio e stiamo considerando assurdo l’ovvio. Era ovvio essere vivi ed era assurdo vivere come zombi, finchè c’erano comunità e natura. Ora è assurdo essere vivi ed è ovvio essere degli zombi.

Nella settimana di libera uscita dai loculi di cemento e dall’ipnosi tecnologica ci capita di essere vivi.

Di stare in posti belli, vivendo tempi umani, conoscendo persone nuove, rinforzando il nostro spirito che è ciò che ci tiene in vita e rafforza la nostra capacità di adattamento al sistema Terra. Passata questa settimana torniamo all’assurdo. Anche se quest’anno è veramente difficile allontanarsi dall’assurdo. L’uomo solo mascherato in una scatola di lamiere che emette pm10 è ovunque. Il politico fallito che propone trattamenti sanitari obbligatori di farmaci inesistenti ha visibilità ovunque, sul territorio nazionale. Passata questa settimana torni nella cultura disperata del capitalismo morente, il loculo climatizzato dove stare attaccato 18 h su 24 h ad un device con una maschera in faccia a fare cose inutili per padroni orrendi dicendo cose finte ai propri simili alienati per continuare la mascherata sociale.

E la mente programmata a ragionare per compartimenti stagni resetta la verità della vita per rimodularsi sugli assiomi hi-tech e bio-tech. Alienazione e sanificazione. E cinque minuti di odio per chi pensa il contrario del terrorismo mediatico perenne. Per chi pensa l’ovvio: che essere bombardati di paura multimendiale 24 ore al giorno, che essere bombardati di farmaci, psicofarmaci e vaccini in dosi perenni, che essere bombardati di pensieri ossessivi, non siano merda profumata e nemmeno l’unica merda possibile, ma solo la forma attuale di un potere violento millenario. La lenta cicuta psicosomatica da ingerire nel terzo millennio dopo Cristo secondo l’interesse del potere, o da evitare in tutti i modi secondo l’interesse di chi vuole restare vivo e restare umano.

La natura è nemica dell’uomo dominatore che sfoga i suoi presunti istinti tagliando alberi, colando cemento, prendendo a calci animali e ordinando alle donne cosa fare. La natura è nemica dell’uomo suo speculare, calcolatore, selezionatore, che ragiona a compartimenti stagni, che reprime i suoi presunti istinti mettendo il caos dell’esistente nei suoi ordini simbolici. Che vive mettendo nelle caselle le sue emozioni per non sentirle. Che vuole sentire parlare solo l’esperto a una dimensione. Che sottomette le sue psicosi con i farmaci della psiche. Che non deve mai fermare il corto circuito del suo cervello altrimenti vince l’horror vacui. Che vive nella paura. Immerso nella paura.

E per questo vive una vita di merda e odia chi vive una vita che vale la pena di vivere. Chi si abbraccia, chi cammina, chi perde il tempo, chi si bacia, chi ride, chi sente.

Chi preferisce vivere sapendo che la vita è un’avventura.

Chi non vuole smettere di vivere per fare vincere la paura.

Paura, paura, paura.

Paura della morte, paura della vita.

Paura che la vita, sfuggendo dalle dita.

Paura che diversa, sarebbe anche possibile

Paura del diverso, paura del possibile.

Altrove da questo osceno palcoscenico virtuale, un mondo diverso è possibile.

Sembra impossibile, ma è anche in costruzione. Da anni, decenni.

Ma la libertà non si può dire, perché la vera libertà è altrove dalla finta libertà del liberismo economico psicotico che ha trasformato in zombi ridens gli esseri umani.

La vita è altrove dall’alienazione virtuale comunicativa terroristica a cui è stata sottoposta la psiche.

Ognuno di noi può salvarsi, se riesce a trovare l’ossigeno della vita, dentro questo scatafascio di sistema alla deriva.

Se riesce a trovare le altre, gli altri, la bellezza, il mondo, un modo diverso di fare società, di fare cultura.

Una natura liberata, una nuova comunità in costruzione.

Come avviene in tutti i posti dove questo è stato capito, anche se le difficoltà sono tante, quasi infinite, perché nessuno è libero veramente dallo scempio creato.

Ma si inizia dai piccoli passi e si fa crescere quello che nell’inferno non è inferno.

Come è avvenuto qui, dove sono adesso.

E in tutti i luoghi che assomigliano a questo.

Pescomaggiore, agosto 2020

La foto in cui guardo l’assedio dell’Eastmed

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Nel tratto di mare che guardo in questa foto hanno deciso di costruire la piattaforma di approdo di un gasdotto (un altro in Salento, dopo Tap). Ciò è avvenuto grazie alla società Igi-Poseidon, alla multinazionale energetica francese Edison e ai governi israeliano, greco, cipriota e italiano.

L’accordo è stato firmato dal precedente governo Gentiloni nella persona del ministro Carlo Calenda. Il governo attuale è schizofrenico (che novità), da un lato nelle settimane scorse ha richiesto al parlamento europeo nuove valutazioni di impatto ambientale, mentre poche settimane prima Salvini era in Isreale a tranquillizzare i suoi soci in affari su questo gasdotto.[1] Continua a leggere “La foto in cui guardo l’assedio dell’Eastmed”

Notte di Natale


focare aradeo
Notte di sogni misteriosi ancestrali arcaici premoderni, rigettati e ritornanti ogni anno nei giorni corti del solstizio d’inverno

Notti cupe e lunghe di cuccuvace ululanti nascoste nelle case abbandonate

Notti di muschi che avanzano umidi sulle lamie e sui cigli delle strade fino ai presepi appoggiati sui muri bianchi e fuligginosi

Notti di panni stesi sulle lamie e riportati dentro per non prendere l’umido

Notti secche come le montagne e umide come le campagne

Notti di fuochi nella notte e di ritrovi ciclici con le stesse persone le persone di sempre quelle che sanno tutto di te Continua a leggere “Notte di Natale”

Il maschile tra natura, cultura e altre invenzioni

Questo testo di qualche anno fa è nato come rielaborazione di un mio intervento tenuto durante l’incontro: “Sessualità maschile e potere” a Catania il 25 novembre 2009 e pubblicato per la prima volta sul Blog “Daniele Barbieri e altr*” (ora transitato su La Bottega del Barbieri). Molte delle esperienze descritte prendono spunto dal lavoro del Laboratorio Smaschieramenti di Bologna di cui ho fatto parte, nato e vissuto nel centro sociale Atlantide, sgomberato malamente lo scorso novembre e a cui sono sempre vicino e che è il simbolo di quello che in Italia fa sempre fatica a trovare cittadinanza in mezzo alle lamentele mediatiche e alle violenze insensate del potere di turno.

Gianluca Ricciato

atlantide

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