«Le donne saranno sempre divise le une dalle altre? Non formeranno mai un corpo unico? » (Olympe de Gouges, 1791)
La donna non va definita in rapporto all’uomo. Su questa coscienza si fondano tanto la nostra lotta quanto la nostra libertà.
L’uomo non è il modello a cui adeguare il processo della scoperta di sé da parte della donna.
La donna è l’altro rispetto all’uomo. L’uomo è l’altro rispetto alla donna. L’uguaglianza è un tentativo ideologico per asservire la donna a più alti livelli.
Identificare la donna all’uomo significa annullare l’ultima via di liberazione.
Liberarsi, per la donna, non vuol dire accettare la stessa vita dell’uomo perché è invivibile, ma esprimere il suo senso dell’esistenza.
La donna come soggetto non rifiuta l’uomo come soggetto, ma lo rifiuta come ruolo assoluto. Nella vita sociale lo rifiuta come ruolo autoritario.
Finora il mito della complementarità è stato usato dall’uomo per giustificare il proprio potere.
Le donne sono persuase fin dall’infanzia a non prendere decisioni e a dipendere da persona «capace» e «responsabile»: il padre, il marito, il fratello…
L’immagine femminile con cui l’uomo ha interpretato la donna è stata una sua invenzione.
Verginità, castità, fedeltà non sono virtù; ma vincoli per costruire e mantenere la famiglia. L’onore ne è la conseguente codificazione repressiva.
Nel matrimonio la donna, priva del suo nome, perde la sua identità significando il passaggio di proprietà che è avvenuto tra il padre di lei e il marito.
Chi genera non ha la facoltà di attribuire ai figli il proprio nome: il diritto della donna è stato ambito da altri di cui è diventato il privilegio.
Ci costringono a rivendicare l’evidenza di un fatto naturale.
Riconosciamo nel matrimonio l’istituzione che ha subordinato la donna al destino maschile. Siamo contro il matrimonio.
Il divorzio è un innesto di matrimonio da cui l’istituzione esce rafforzata.
La trasmissione della vita, il rispetto della vita, il senso della vita sono esperienza intensa della donna e valori che lei rivendica.
Il primo elemento di rancore della donna verso la società sta nell’essere costretta ad affrontare la maternità come un aut aut.
Denunciamo lo snaturamento di una maternità pagata al prezzo dell’esclusione.
La negazione della libertà dell’aborto rientra nel veto globale che viene fatto all’autonomia della donna.
Non vogliamo pensare alla maternità tutta la vita e continuare a essere inconsci strumenti del potere patriarcale.
La donna è stufa di allevare un figlio che le diventerà un cattivo amante.
La “puerilità” dell’Oriente ha qualcosa da insegnarci, fosse anche l’angustia delle nostre idee di adulti (Maurice Merleau-Ponty) [1]
Il maschio burionico
Qui e ora noi viviamo in una sorta di iperuranio tecnologico in cui le funzioni cognitive sono privilegiate rispetto a tutte le altre, in particolare rispetto alle funzioni sensoriali, emozionali e sentimentali. Questa non è una novità, le radici di questo modo di vivere sono quelle della nostra cultura greco-latina e la pervasività di un certo tipo di technè nello sviluppo umano inizia con le rivoluzioni industriali dell’epoca moderna. Tuttavia, da circa 20 anni a questa parte, l’avvenuto sdoppiamento della nostra identità quotidiana tra cosiddetta vita reale e vita virtuale ha posto la questione in termini diversi a livello antropologico, non solo rispetto alla pervasività degli strumenti, ma soprattutto rispetto all’organizzazione delle vite e al rapporto soggetto-mondo.
Questo vuol dire che un’esistenza che non passa attraverso lo sdoppiamento virtuale è un’esistenza che fa fatica ad avere voce. E specularmente, che una presenza mediatica ossessiva rende iper-reale un’idea o un fatto. Ciò non rende più o meno vera quell’idea, ma la percezione di quell’idea come vera.
In questo panorama si è innestata una apparentemente nuova figura di uomo di potere, le cui caratteristiche sono sempre apparentemente diverse da quelle del passato, ma rispetto al modello epistemologico esse fanno perno sulle classiche leve del dominio patriarcale che le culture femministe del ‘900 (e non solo quelle) hanno letteralmente messo a nudo.
Provo ad elencarle perché siano più chiare possibili, in quanto sono il nucleo di quello che sto cercando di evidenziare:
logocentrismo epistemologico e fallocentrismo morale
mito del progresso come deificazione della techné
competitività contro cultura cooperativa
primato delle competenze a scapito delle conoscenze sistemiche
cultura della guerra come modello mentale e linguistico
«Secondo alcuni studiosi, il linguaggio scientifico sarebbe una buona approssimazione del linguaggio non retoricamente elaborato. A ciò si potrebbe opporre che il discorso scientifico, almeno in alcuni suoi passaggi decisivi, fa delle operazioni che sono di carattere squisitamente retorico(*).
Si capisce tuttavia come esso appaia vicino al grado zero se si considera che nella ricerca scientifica i procedimenti metonimici e metaforici (**) si articolano in maniera insieme elastica e stabile, molto più che in altre pratiche significanti dove spadroneggiano ignoranza e licenza.
Discussioni secolari su induzione o deduzione per capire alla fine che la scienza non si trova ad affrontare simile alternativa. Non ne ha bisogno, dico io, poiché il passaggio dal particolare all’universale e viceversa è un’operazione pratica che si fa in tanti modi e versi, ogni volta che sia possibile oltre che opportuno. Ed è possibile appena si riesce ad inventare un significato capace di esprimere e progettare il senso globale di un movimento esplorativo, poco importa quanto esteso o di quale natura. I botanici lavorano su lunghe e minuziose raccolte, Galileo si è concentrato su pochi esperimenti mentali, Freud si è dibattuto con i fantasmi suoi e dei suoi pazienti. Naturalmente le scienze non sono tutte uguali neanche da questo punto di vista.
“In un convegno del settembre 2017 presso il Cicap – Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze, Silvio Garattini, presidente di una fondazione privata di ricerche farmacologiche, tiene una lectio magistralis per smascherare la «finta scienza». Ma si evince subito che i suoi obiettivi non sono i seguaci del paranormale, bensì suoi colleghi medici e ricercatori che hanno idee e pratiche diverse dalla sua. Obiettivo legittimo naturalmente, quello di criticare. All’interno però di questa conferenza – che si può ascoltare online su youtube – Garattini stila un arbitrario «decalogo del perfetto credulone» (visionabile dal minuto 7), in cui invita a fare attenzione ad una serie di persone che hanno almeno «due o tre» delle seguenti caratteristiche, tra cui ad esempio vegetarianesimo, alimentazione biologica e metodi di cura «non ortodossi».”[1]
«La natura nella concezione di Bacone doveva essere “rincorsa nelle sue peregrinazioni”, “costretta a servire” e resa “schiava”. Essa doveva essere “messa in ceppi” e scopo dello scienziato doveva essere quello di “strappare con la tortura i suoi segreti”. Pare che gran parte di queste immagini violente siano state ispirate dai processi per stregoneria, che erano frequenti al tempo di Bacone. In quanto ministro della Giustizia sotto il re Giacomo I, Bacone aveva grande familiarità con tali processi, e poiché la natura era considerata di solito femmina, non sorprende che egli trasferisse nei suoi scritti scientifici le metafore usate nei tribunali. In effetti la sua concezione della natura come donna alla quale si debbano strappare i segreti con la tortura per mezzo di dispositivi meccanici richiama alla mente con grande evidenza la diffusione della tortura alle donne nei processi per stregoneria dell’inizio del Seicento»
Carolyn Merchant
«La morte della natura. Donne, ecologia e Rivoluzione scientifica. Dalla Natura come organismo alla Natura come macchina», (1988)
Scienza e modelli di sviluppo
di Elisabetta Donini
La critica femminista della scienza degli anni ’70 e ’80 è ancora attuale? Ed è ancora in grado di misurarsi efficacemente con i fenomeni di maggiore portata della realtà mondiale contemporanea, segnata da squilibri sempre più profondi e da una rilegittimazione sempre più diffusa e devastante degli orizzonti della violenza armata e della guerra?
I lavori di Evelyn Fox Keller, Carolyn Merchant, Sandra Harding, Londa Schiebinger sono maturati entro il contesto della cultura occidentale, mettendone però radicalmente in discussione uno dei pilastri fondanti: il carattere neutro, oggettivo ed universale della conoscenza scientifica così come è andata costituendosi in epoca moderna, con il suo risvolto di volontà di dominio tecnico e poi tecnologico sulla natura. In sede storica ed epistemologica, scavare nel nesso tra la parzialità di genere nel segno del maschile e la pretesa univocità di quella forma di conoscenza/intervento è stata l’espressione di una soggettività politica più ampia, che non soltanto non si riconosceva nei rapporti invalsi tra donne e uomini, ma che a partire dalle istanze di liberazione in quanto donne aspirava a contribuire al cambiamento degli assetti generali del mondo.
Nel corso degli ultimi quindici anni l’incisività di tale prospettiva si è a mio parere radicalmente appannata, sia perché tra le stesse donne che sono entrate sempre più numerose nella ricerca scientifica gli interrogativi originari sollevati dalla critica femminista non paiono destare grande interesse sia perché intanto sono invece diventati più incalzanti altri modi di misurarsi con il rapporto tra scienza, potere e modelli di sviluppo, non riducibili a quelli di cui si era nutrito il femminismo nei paesi dell’Occidente. Le vicende della cosiddetta mondializzazione dell’economia hanno infatti fatto esplodere la contraddizione tra la pressione ad assoggettare l’intero pianeta al sistema di mercato e agli stili di vita dei paesi che si autodefiniscono come “sviluppati” e l’insostenibilità di questo stesso sistema e questi stili su scala globale. Perciò voci dal Sud del mondo come quella di Vandana Shiva pongono questioni in cui la critica della volontà di dominio intrinseca alla scienza moderna si richiama si alla parzialità di genere di quest’ultima, ma in un quadro in cui è altrettanto cruciale ragionare del carattere colonialistico e imperialistico del progetto socio-economico cui la scienza moderna è costitutivamente connessa.
Se Evelyn Fox Keller o Carolyn Merchant sono state una guida preziosa per molte donne della mia generazione per rileggere la nascita del metodo sperimentale alla luce del linguaggio da caccia alle streghe con cui Francesco Bacone esaltava la penetrazione violenta nel corpo della natura per strapparne i segreti, non credo irrilevante che oggi compaiano studi (1) in cui quel medesimo Bacone spicca piuttosto come coprotagonista del processo fondativo del capitalismo e del colonialismo inglese tra ‘500 e ‘600, da un lato arricchendosi con la partecipazione in patria all’espropriazione/appropriazione di beni fino ad allora comuni (la vicenda delle enclosures) e oltre Oceano allo sfruttamento delle terre di conquista e dall’altro lato proclamando una Holy War contro ogni ribelle al nuovo dominio. Né credo che, allora come oggi, possano essere condonati come “incidenti di percorso” o spiacevoli quanto incolpevoli “effetti collaterali” i milioni di persone uccise, le distruzioni dell’ambiente, le cancellazioni di culture e modi di vita attraverso cui sono prosperati gli imperi.