Quello che del lavoro è meglio non dire nell’era dell’infodemia capitalista



Aver subito anni di sfruttamento lavorativo e precariato, di annientamento dei diritti sociali e di riduzione della vita a stress psicotico non ha generato le stesse reazioni in tutte e tutti noi.

Personalmente mi riconosco in una parte di popolazione ormai adulta (siamo la cosiddetta generazione X, parlo qui di una parte di essa) che ha deciso di non farsi rubare la vita: non crediamo ai successi lavorativi, alle sirene della meritocrazia, ai discorsi tecnicisti perché abbiamo visto che il nostro tempo di lavoro, le nostre professionalità e il tempo che abbiamo speso per formarci viene letteralmente rubato dal capitale a noi stessi e regalato ai peggiori padroni capitalisti sfruttatori di popoli e distruttori della Terra.

Per essere più chiaro: se io faccio lo stesso lavoro che facevano i miei genitori (l’insegnante), prendo la metà dei soldi rispetto a loro calcolando il costo della vita attuale, lavoro il doppio se non il triplo, ci metto mezza vita ad uscire dal precariato e intorno ho un mondo in cui la socialità è quasi azzerata rispetto ad allora. Semplicemente, non ne vale la pena, perché tra burocrazia, stipendi risicati e stress, fare l’insegnante mi ruba letteralmente la vita (il cretinismo dei tre mesi di vacanza di cui parla lo schiavo di turno è parte di questo problema in un mondo appunto di lavoratori schiavi del capitale).

Lo faccio lo stesso il lavoro di insegnante a volte (non sempre, quando posso, quando devo e anche quando voglio, e faccio anche altro per inventarmi una sopravvivenza), lo faccio dicevo a volte ma lo so che è una vita che per molti versi non ha senso. Poi quando lo faccio cerco di salvare il senso andando a cercarlo altrove o anche là dentro dove possibile, contro una montagna di burocrazia e programmi inutili, cerco di salvare le relazioni umane.

Una parte della mia generazione sa tutto questo e anche se continuamente scende a compromessi con questo mondo di schiavismo lavorativo (la scuola era solo un esempio fatto perché la conosco, e nemmeno il peggiore) sa che non c’è nessun compromesso nella situazione dittatoriale in cui ci troviamo perché il capitalismo della finanza globale non ha più alcun freno legato a welfare statali o diritti sociali.

Ma soprattutto il capitale ha dalla sua parte una maggioranza di popolazione resa docile, isolata, atomizzata e automizzata, misantropa e amante dei suoi carnefici, che tuttavia crede di essere intelligente, informata e progressista e rende impossibili, letteralmente, i ragionamenti che ho fatto finora, con una violenza che a me sembra tanto più grande quanto più tocca evidenti nervi scoperti.

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Come uscire dal pensiero bipolare inventato dalla tecnocrazia globale

Io non divento di centrodestra se Meloni dice cose finalmente sensate sulla gestione pandemica italiana, così come non divento di centrosinistra se qualsiasi segretario/a del PD dice cose sensate sulla risaputa omofobia degli italiani. Giudico un provvedimento politico e decido se è utile. Ma essendo consapevole di non essere in questo 2023 in una democrazia, bensì in una tecnocrazia, ed essendo io avversario della tecnocrazia globale atlantista che rappresenta gli interessi della borghesia capitalista attuale, questi due schieramenti servi di questo sistema di potere non mi rappresentano e non determinano il mio sistema di idee. Ma, mi chiedo, le persone in questo 2023, come formano il loro sistema di idee? 


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Natale 1924: nascita della psicosi consumista

di Gianluca Ricciato

(*) Articolo scritto per le scor-date de La Bottega del Barbieri

Come scrive Wikipedia: “I principali produttori europei e statunitensi di lampade ad incandescenza del tempo si riunirono a Ginevra, il 23 dicembre 1924, firmando il Cartello Phoebus con un termine ideale per il 1955. Tuttavia la seconda guerra mondiale fece saltare l’accordo nel 1939. All’epoca del cartello esistevano diversi tipi non standardizzati di lampadine, per forma, incastro, tensione, potenza e luminosità: i produttori del cartello si imposero uno standard tecnico, primo caso nella storia della tecnologia, per omologare la produzione e i mercati europei e statunitensi: dato che nella standardizzazione fu imposto un limite di 1000 h per la durata di ogni lampadina, che fu definito come una “ragionevole aspettativa di vita”, ottimale per la maggior parte delle lampadine, furono e sono ancora fatte molte speculazioni su una sorta di primo tentativo di obsolescenza programmata.[1]

Serge Latouche, uno dei massimi rappresentanti dell’idea della decrescita, ricorda nel libro “L’economia è una menzogna” questo episodio del Natale 1924, e lo ricorda senza la prudenza fintamente imparziale con cui lo cita Wikipedia: durante quell’incontro infatti delle aziende private decisero ciò che fino ad allora sembrava un’assurdità per il genere umano, cioè diminuire le prestazioni di un loro prodotto togliendo ad esso tempo di vita. Possiamo considerare, quindi, il Natale 1924 la data simbolica di un mutamento antropologico (in peggio) che ha generato l’essere umano attuale?

«Il giorno di Natale del 1924, i rappresentanti dei maggiori produttori mondiali di lampadine decisero, incontrandosi a Ginevra,  che la vita di una lampadina non poteva superare le mille ore di luce, introducendo nei loro prodotti un difetto che prima non esisteva, dato che praticamente le lampadine erano pressoché eterne; a testimoniare questo fatto Latouche ricorda che nella caserma dei pompieri di Livermore, in California, fa ancora luce a tutt’oggi una lampadina del 1912, fabbricata prima delle modifiche peggiorative del 1924. Livermore potrebbe diventare un simbolo internazionale della società della decrescita.»[2]

Ci abbiamo messo un secolo a comprendere, e non ancora a livello generale, che esiste un problema sociale ed ecologico gravissimo che si chiama obsolescenza programmata: automobili, elettrodomestici, computer, smartphone, stampanti, televisori, soprattutto quelle di uso comune e non di lusso, sono prodotti soggetti ad una programmazione pro tempore. Questo è stato possibile grazie a decenni di pubblicità che hanno reso ai nostri occhi anti-economici gli oggetti durevoli ed economici gli oggetti usa e getta. È probabilmente uno dei problemi ecologici più drammatici, che però non ha la fortuna del climate change nei media (forse perché è difficile innescare soluzioni greenwashing come le auto elettriche, su questo tema).

Quali sarebbero quindi le soluzioni? Generare cultura diffusa, scrivere di questo, parlarne, potrebbe servire? Forse sì, ma personalmente ho l’impressione che serva a poco, materialmente, per invertire la rotta, anche perché lo stiamo facendo da anni.

Per questo se devo veramente dire ciò che penso su questo tema, ho bisogno di andare al fondo di un altro problema che a mio parere è strettamente connesso a questo e che riguarda il tentativo di creare coscienza ecologica nella popolazione da parte di una parte di essa. Sono decenni ormai che rispetto al tema ecologista – e non solo – si è diffuso un atteggiamento moralista e colpevolizzante, da parte di molte persone attiviste o che si ritengono tali. È un atteggiamento da purista che si tira fuori dal problema, che crede che la scelta etica lo/la preservi dalla connivenza con la produzione e il consumo capitalista. Dicendo questo non intendo negare il peso delle responsabilità individuali nelle scelte degli stili di vita, ma non si può secondo me scindere questa responsabilità dal fatto che non esiste individuo fuori da una società. Così come non esiste testo senza contesto, e non esistono corpi senza ambiente circostante.

Milioni di individui della società occidentale, quotidianamente, sono indotti ad usare e gettare via centinaia di fazzoletti e tovaglioli di carta, decine tra bicchieri e bottigliette di plastica, fino a qualche mese fa più di una mascherina al giorno (senza che si potesse minimamente accennare al problema pena venire tacciati di essere nemici del popolo). Questi individui sono la normalità strutturale delle società capitaliste e dei luoghi da esse colonizzati. Ma ci sono tanti altri individui che sono pienamente consapevoli del fatto che questa sia una follia che non può andare avanti. Solo che va avanti lo stesso nonostante questa consapevolezza. È questo stesso modello mentale, a mio parere, che rende invisibile il fatto che due anni fa hai comprato un televisore nuovo (o un altro tra le decine di elettrodomestici “indispensabili”) e ora lo devi cambiare, e tutto questo è una delle principali cause del tuo impoverimento, oltre che un danno enorme per il sistema Terra. Ma non sai fare altro che lamentartene e proseguire con la coazione al consumo, cioè con la coazione al tuo impoverimento (inutile parlare di conseguenze ecologiche perché spesso chi vive così non ha nemmeno la capacità o la forza di pensarci).

Allora di nuovo, che fare?

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1999

Credo che questo sia il primo racconto che ho scritto nella mia vita, dico credo perché quella era un’epoca confusionaria e scrivevo tante cose disordinate, ma la sensazione è che la serata qui vissuta sia stata la prima ad ispirarmi una scrittura con un’intenzione narrativa. Nonostante oggi lo editerei da capo a piedi staccandolo dalla pura autobiografia, è giusto che rimanga tale e quale lo scrisse quel ragazzetto nella foto a fine post. Inutile che nego adesso l’occasione dell’attualità che me lo ha fatto tirare fuori, ma con le pagliacciate del regime tecnocratico odierno ha poco a che fare. Sono però felice che anche con il doppio degli anni che ho oggi rispetto ad allora, siano rimaste immutate le mie idee libertarie che mi hanno sempre allontanato dai burattini del potere, a prescindere dal loro posizionamento nella farsa del sistema. Che poi, in un sistema tecnocratico, è sempre un posizionamento di destra. Così come lo è qualunque limitazione della libertà delle persone, oggi come ieri, è sempre quello il problema. Le scuse per farlo cambiano in base alle epoche.



1999

La veneziana brown della mia camera è chiusa per difendermi dai 40 gradi che attanagliano me e una città semideserta, chiusa al traffico nel suo ombelico come informava poco fa il tg3 regionale, ancora rincoglionita da un terremoto notturno che aveva in sé qualcosa di finale, ma anche di iniziale.

Com’ero rincoglionito io ieri sera prima di addormentarmi, quando cercavo vanamente qualche pensiero, qualche appiglio spaziotemporale che non riguardasse le otto ore di terremoto sonoro che avevo appena trascorso. Una ricerca inutile, qualche ricordo importante, qualche legame con il mondo circostante e la mia vita bolognese, qualche varco tra le ombre luminose inserite nella mia mente dai decibel elettrochimici, dall’alcool, dalle sirene, da migliaia di volti e di gambe nude, dal sudore, dall’hascisch.

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Spazi sociali in zone rurali. Un laboratorio nel Riforestival

Intanto…Riforestival è stato un evento contenitore di tanti eventi che ha lasciato in tutte e tutti i partecipanti sensazioni belle, diverse e difficilmente riassumibili. Ho cercato di descrivere il senso di questo evento nel precedente articolo di questo blog.

Qui proverò a restituire qualcosa che è emerso nel laboratorio che ho facilitato nel pomeriggio di sabato 17 settembre, Spazi sociali in contesti rurali. Grazie a tutt’ quant’ per la splendida partecipazione che prelude ad un futuro mirabile su queste latitudini. E grazie a Maurizio Simone per aver ordinato i materiali del laboratorio sugli spazi sociali.

Qui di seguito, prima del report, uno slideshow con alcune mie foto del Riforestival.

Gianluca


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