“Gli ordini simbolici di metafora e metonimia” è un testo presentato e discusso come tesi di laurea in Filosofia da Gianluca Ricciato, presso l’università di Bologna, con l’aiuto del prof. Paolo Bagni e della prof.ssa Liliana Rampello. Prende le mosse dal testo di Luisa Muraro “Maglia o uncinetto: racconto linguistico-politico dell’inimicizia tra metafora e metonimia”. Di seguito una breve presentazione, i links dove leggere online alcune parti del testo e il pdf scaricabile del testo

 

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“Un pensiero che si sporge sul reale”

Luisa Muraro

 

Cos’è la metonimia

Il linguista strutturalista russo Roman Jakobson sosteneva che dalla scoperta di Saussure della genesi arbitraria e storica del linguaggio, secondo lo schema degli assi incrociati paradigma-sintagma, si può dedurre che la generazione dei significati avviene attraverso la doppia direttrice delle due figure retoriche classiche della metafora e della metonimia. Lo studio psichiatrico di una duplice e simmetrica patologia del linguaggio, condotto su alcuni pazienti afasici, rivela secondo Jakobson tale doppia generazione dei significati: il disturbo della similarità e della contiguità, cioè da un lato il deterioramento delle funzioni metalinguistiche, dall’altro l’alterazione della facoltà di conservare la gerarchia delle unità linguistiche – incapacità di sinonimia, eteronomia, metaforizzazione, codificazione (deficit metaforico) e incapacità di contestualizzazione, declinazione, coniugazione, contiguità (deficit metonimico).

Il linguista invoca quindi, negli anni Sessanta, uno studio comparativo sistematico contro le ricerche monopolari che ignorano questa differenza semantica e soffrono esse stesse del disturbo della contiguità: ad una mole ingente di studi metaforici non corrisponde una stessa mole di studi sulla metonimia. “Forse che gli studiosi stessi soffrono di disturbo della contiguità”, hanno cioè essi stessi un problema con “un pensiero che si sporge sul reale”?

Le risorse metonimiche, cioè la conoscenza per contiguità, per racconto, per combinazione di cose e parole, per movimento da contesto e contesto, sono subordinate alla concettualizzazione e alla codificazione (cioè a quel metodo di conoscenza più affine alla metafora che alla metonimia) pur essendo necessaria la loro esistenza, poiché senza di esse non potrebbero aver luogo tali concettualizzazioni.

Il simbolismo metonimico, la conoscenza che non oppone parole e cose, senso ed essere, che non si fonda sulla dicotomia spirito-materia, risulta imbrigliata in un infinito tentativo di rappresentazione e ripresentazione: è sottoposta ad un regime di ipermetaforicità, incapace di pensare ciò che spesso viene ritenuto impensabile, cioè la “prossimità di cose e parole”, il linguaggio che porta in sé l’impronta del mondo che lo ha generato.

Per affrontare questo problema, occorre che il pensiero teorico non ragioni più in contrasto con l’esperienza vissuta, ma cerchi di esserne una mediazione. L’esperienza di insegnante nelle scuole subalterne, in cui emergeva la lacerante opposizione tra le regole linguistiche e i “corpi selvaggi” della periferia milanese, e l’altra esperienza delle pratiche di autocoscienza e del “partire da sé” tra donne al di là della presenza simbolica (cioè fisica e morale) dell’uomo, sono tra i moventi materiali di questo discorso.

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Il simbolismo metonimico non è letteralità, né tanto meno verosimiglianza, è una forma retorica del discorso in cui è però presente il nesso materiale cioè la contiguità spaziale, temporale o causale di ciò che viene simbolizzato (le camicie nere, il bicchiere d’acqua, la falce simbolo delle messi, etc).

La riduzione e la subordinazione di questo modo simbolico genera un accumulo culturale in cui l’esperienza si rarefa, si perde progressivamente (Nietzsche parlava di perdita delle impressioni prime, Baudrillard di perdita del senso sotto l’eccesso di senso), e i corpi reali, cioè gli individui in carne ed ossa che compongono il corpo sociale, contribuiscono ad alimentare una tale sistemazione dell’ordine simbolico.

Ma tale ordine simbolico non coincide solo con quella che potremmo chiamare la cultura “occidentale”: è l’espressione linguistica e culturale di un pensiero che ha perduto la sua matrice, cioè il rapporto simbolico con la madre, la prima relazione mediatrice che ci ha dato la parola e che è stata subordinata dalla cultura fallocentrica.

Ciò non solo perché si è affermata con la violenza nella storia l’autorità maschile su quella femminile; la soppressione dell’autorità femminile generatrice della vita è stata subordinata anche – paradossalmente – nel nome del “libero pensiero” e dell’indipendenza simbolica, cioè dalla volontà filosofica, storica, scientifica, di poter dominare l’esistente attraverso un linguaggio superiore e staccato dalla propria origine simbolica, e quindi inevitabilmente in opposizione al proprio vissuto personale. Ciò ha condotto ad una perdita del senso profondo di libertà in nome di una finzione che si autoalimenta: non è una questione di stabilire un fondamento essenzialista “materno”, ma di ri-conoscere un misconoscimento secolare che sta arrivando ad annientare l’esistente, con lo scopo di salvarlo e di cambiare marcia rispetto alla cultura mortifera tardopatriarcale e capitalista.

Molti dei tentativi di recuperare questa perdita hanno spesso risentito del misconoscimento della potenza materna, che è una autorità simbolica ma non nella forma di un potere superiore: è l’autorità nata dalla relazione madre-figlio (“madre, o chi per lei”, scrive Muraro), che ci ha permesso la prima mediazione col mondo in un rapporto di continuo scambio simbolico, al di là delle imposizioni gerarchiche del potere istituzionale (a cui spesso si fa corrispondere il termine “autorità”): “un ordine simbolico che non spoglia la madre delle sue qualità” e che resiste sia al nichilismo che al “raddoppiamento” fenomenologico, cioè alla riproduzione in laboratorio del mondo con la pretesa che ciò sia una possibilità reale e non una finzione metodologica.

La pretesa di scrivere una verità assoluta e definitiva sui fenomeni, comunemente detta “verità scientifica”, estrema conseguenza del distacco tra il pensiero e la realtà, è lo stato attuale di una cultura frammentata in linguaggi incomunicabili e che ripropone a livello di rappresentazione mediatica e virtuale l’originaria divisione platonica dell’esistente in mondo e “copia del mondo”. Ciò, con l’intento di esercitare un potere assoluto ad un livello inedito – globale – sfruttando modelli mentali ottocenteschi ancora diffusi e avallati a livello di massa, nonostante siano stati già ampiamente smontati all’interno della filosofia occidentale stessa e che aspettano ancora un punto di svolta che ne superi anche nella pratica i meccanismi:  «la lotta contro Platone, o per dirla in modo più comprensibile e adatto al popolo, la lotta contro la secolare oppressione cristiano-ecclesiatica – poiché il cristianesimo è il platonismo per il “popolo” – ha creato in Europa una splendida tensione dello spirito, come non c’era mai stata sulla terra: con un arco così teso si può mirare ormai alle mete più lontane» (Nietzsche, Al di là del bene e del male)

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Frida Khalo, Mosè o nucleo solare, (1945)

 

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GLI ORDINI SIMBOLICI

DI METAFORA E METONIMIA

 

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INTRO – UN RACCONTO METONIMICO

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LA METAFORA, LA GUERRA, LA DANZA

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IL REGIME DI IPERMETAFORICITA’

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TONDELLI. IL VISSUTO PERSONALE COME FONTE DI CONOSCENZA

 

 

Gli ordini simbolici di metafora e metonimia, G. Ricciato, Tesi di laurea, Univ. di Bologna, 2004.

Per scaricarlo, qui:

4 pensieri riguardo “GLI ORDINI SIMBOLICI DI METAFORA E METONIMIA

  1. Ho curiosato tre la tue pagine. Io e te apparteniamo a mondi differenti, distanti anni luce, eppure questo richiamo alla realtà contrapposta alla attualità mi affascina molto, come pure quanto dici sulla metonimia “cenerentolizzata” e sul suo senso (scusa se sono grossolana) di riconoscere vicinanza tra parola e parola e tra parole e realtà. Questo è il regalo enorme del web: la possibilità di incontrare mondi alieni e di entrare talora in contatto con loro, addirittura scoprendo insospettabili affinità. Grazie!

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