La faccio a piedi sabato mattina la strada da Via Algardi a via Pier de’ Crescenzi, in fondo sono quartieri limitrofi, c’è solo da passare il ponte, pittoresco con la neve che copre l’orizzonte metropolitano dei binari dei mille viaggi nostri e dei mille sogni nostri, poi c’è da prendere la solita vecchia via Boldrini e sono quasi arrivato.
In via Jacopo della Quercia vedo uno che tenta di uscire da un parcheggio, le ruote schittano nella neve e lui si danna in retromarcia. Basterebbe che io posassi le borse e lo spingessi da davanti, uscirebbe in un attimo. Penso che in cambio mi potrebbe dare un passaggio, non glie lo chiederei ma me lo darebbe lui per gratitudine, se va dalla mia parte. Questo pensiero se ne va subito, arriva subito dopo il suo assassino, il pensiero che mi dice che lui pur di non darmi il passaggio andrebbe dall’altra parte. Questa è la mia città, questi siamo noi zombie.
Proseguo senza fermarmi. Attraversano la strada due donne mie coetanee sculettanti, le seguo con gli occhi e penso che se fosse capitato a loro avrei avuto più legittimità a fermarmi, se fosse capitato che erano in panne con la macchina. Lo stereotipo di genere. Là sarebbe stato chiaro perché lo stavo facendo. Tutto si fa o per soldi o per sesso. In cambio mi danno il sesso o se no ci devo guadagnare qualcosa.
Questa è la città, questa è la metropoli, questo è il Nord, questo siamo noi.
Appena mi succede qualcosa per strada in Salento si avvicina qualcuno a chiedermi qualcosa, e io mi sento oppresso. Il giorno che sono arrivato, a pomeriggio, ho visto sulla strada del cimitero un vecchio seduto sul ciglio con accanto una macchina ferma, una R4 rossa vecchissima, e due tine piene di legna. Sono sceso e gli ho chiesto se le vendeva.
“E cce fazzu legna io?” mi ha risposto.
Ho chiesto scusa, ha capito che ero “professore” – sono tutti professori i laureati – e mi ha chiesto chi ero.
“Gianluca mi chiamo” e sono scappato pieno di panico per cotanta vita che trapelava dalla debole e tremante voce di un ottantenne.
La mattina dopo alle sette e mezza la Maria sta scendendo le scale della sua casa di Cutrofiano. La sta passando a prendere l’infermiera che lavora all’ospedale, le da un passaggio per arrivare a Galatina che deve parlare con quello dell’Asl per l’assegno di accompagnamento. Vive sola a casa con Pippi, il marito, parcheggiato nel letto ormai da anni, alzheimer, e l’assegno di accompagnamento lo sta aspettando da un anno. Dice mo’ arriva mo’ arriva, dice il sindacalista di Cutrofiano, ma intanto non arriva, e allora prende e si fa accompagnare a Galatina che oggi ricevono all’ufficio dell’Asl, se no deve aspettare un’altra settimana. Sta piovendo, se no andava in bicicletta, così poteva anche tornarsene, con la bicicletta.
Cinque kilometri di strada provinciale accanto agli zombie che sfrecciano a 150 all’ora, sul ciglio della strada attenta a non cadere in mezzo alle cicorie. L’ha fatto tante volte, una vita, ma negli anni Cinquanta era un po’ diverso.
L’infermiera la lascia all’angolo del corso e lei va all’Asl, la stanno a sentire mentre urla e si dimena, le promettono che la settimana prossima le arriva a casa il foglio da firmare. Si riavvia a piedi verso le dieci, lei le sue vene varicose e i suoi ottanta chili per un metro e cinquanta, prende via Liguria, passa accanto agli specchi del Palazzo di Giustizia, inutilmente scintillante e plateale in mezzo alla merda in cui si erge la Giustizia in questo loco.
Proprio quando è partita dall’Asl è ricominciato a piovere a dirotto, e fa pure un freddo della madonna stamattina. Dopo gli specchi inutili cammina altri cento metri e arriva all’angolo con la provinciale per Cutrofiano.
Poco prima del semaforo le passo accanto in macchina e mi incrocia lo sguardo.
Qua fanno le domeniche ciclistiche. Vanno in giro a fare gli splendidi, in gruppi, perché loro sono a favore della mobilità sostenibile. Dicono che bisogna costruire e non distruggere, proporre e non criticare, che se no sei un frustrato. Non ci hanno capito niente secondo me e sono dei provinciali tardofeudali che si credono ambientalisti. Sette anni fa uno che poi diventò il Presidente ci promise di fare la mobilità sostenibile, la metropolitana di superficie, le ciclabili lungo le provinciali. Poi andò al potere due volte e se ne sbattè i coglioni e chi va in bicicletta qui muore ogni giorno e chi non ha la macchina né la bicicletta non si muove neanche. Assedio ci vorrebbe, altro che scampagnate. Questo è lo splendido e verde Sud dei miei coglioni.
È che io sono critico e distruttivo.
Oppure sarà che a me gli occhi della Maria mi fanno paura.
Poco prima del semaforo le passo accanto in macchina e la Maria mi incrocia lo sguardo. Mi fermo per il rosso, lei mi raggiunge e io abbasso il vetro del sedile accanto.
“Vai a Cutrofiano?”
“No signora…”
Rialzo il vetro. Me ne sto per andare. Dovrei deviare di tre kilometri la mia traiettoria e non mi entra niente in tasca nel farlo. E poi c’ho il riflesso condizionato di evitare qualunque tipo di rompimenti di palle, in Salento perché poi vogliono sapere chi sono e che faccio, se sono sposato o se sono singolo. A Bologna perché non posso oggettivamente fermarmi tutte le volte che qualcuno mi chiama per strada, dato che dovrei dare agli importunatori tutto il tempo che non ho e tutti i soldi che non ho. Quindi ormai per riflesso chiudo sempre le porte agli sconosciuti molestatori. Tanto soldi non ne ho.
Qualcosa questa volta mi fa rinsavire. Credo che sia qualcosa di atavico, un ricordo. In macchina con mia mamma e mio fratello, saranno venticinque anni fa. Di ritorno dal mare, caldo torrido, estate, vacanze, felicità.
Un’anziana signora ci ferma su un’altra provinciale e mia mamma si impietosisce subito e la fa salire. Lei ci racconta una storia che è simile a quella della Maria. Le uniche differenze sono i venticinque anni di distanza tra i due eventi e che quel giorno il nemico era il caldo e oggi il nemico è la pioggia battente. Per il resto non cambia niente. Non deve cambiare mai niente al Sud, se no si perdono le tradizioni.
Riabbasso il vetro.
“Sali signora, sali che ti porto”
Il mio tentennamento mi ha fatto perdere credibilità ai suoi occhi e c’ha ragione. Mi racconta tutto, dell’infermiera, della Asl, dellu Pippi con l’alzheimer, di questa merda di sindacati, di questa merda di Stato.
“Tieni ragione signora” so solo dire
Mi fa vedere i fogli e devo fare finta di leggere mentre guido, mi chiede di dove sono, le dico che la farmacista di Cutrofiano è un’amica mia, mi indica con le mani dove girare per arrivare a casa sua.
Lesina cortesia nei miei confronti, mi urla per sfogarsi e perché non deve niente a nessuno, una che a ottant’anni la costringono a fare questi numeri e i giovani con la macchina ci pensano pure due volte se devono darle un passaggio o meno.
“Che se non pioveva venivo con la bicicletta” mi ripete più volte per farmelo capire. Ma mi regala lo stesso un sorriso prima di andarsene, e anche un grazie.
Prima di risalire le scale polverose e andare a vedere se lu Pippi è ancora vivo.