1999

Credo che questo sia il primo racconto che ho scritto nella mia vita, dico credo perché quella era un’epoca confusionaria e scrivevo tante cose disordinate, ma la sensazione è che la serata qui vissuta sia stata la prima ad ispirarmi una scrittura con un’intenzione narrativa. Nonostante oggi lo editerei da capo a piedi staccandolo dalla pura autobiografia, è giusto che rimanga tale e quale lo scrisse quel ragazzetto nella foto a fine post. Inutile che nego adesso l’occasione dell’attualità che me lo ha fatto tirare fuori, ma con le pagliacciate del regime tecnocratico odierno ha poco a che fare. Sono però felice che anche con il doppio degli anni che ho oggi rispetto ad allora, siano rimaste immutate le mie idee libertarie che mi hanno sempre allontanato dai burattini del potere, a prescindere dal loro posizionamento nella farsa del sistema. Che poi, in un sistema tecnocratico, è sempre un posizionamento di destra. Così come lo è qualunque limitazione della libertà delle persone, oggi come ieri, è sempre quello il problema. Le scuse per farlo cambiano in base alle epoche.



1999

La veneziana brown della mia camera è chiusa per difendermi dai 40 gradi che attanagliano me e una città semideserta, chiusa al traffico nel suo ombelico come informava poco fa il tg3 regionale, ancora rincoglionita da un terremoto notturno che aveva in sé qualcosa di finale, ma anche di iniziale.

Com’ero rincoglionito io ieri sera prima di addormentarmi, quando cercavo vanamente qualche pensiero, qualche appiglio spaziotemporale che non riguardasse le otto ore di terremoto sonoro che avevo appena trascorso. Una ricerca inutile, qualche ricordo importante, qualche legame con il mondo circostante e la mia vita bolognese, qualche varco tra le ombre luminose inserite nella mia mente dai decibel elettrochimici, dall’alcool, dalle sirene, da migliaia di volti e di gambe nude, dal sudore, dall’hascisch.

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La lotta di classe del sistema immunitario

Per essere lì alle otto devo mettere la sveglia almeno alle sei meno un quarto.

E mi deve andare bene che la metro deve passare entro dieci minuti, cosa che spesso non succede. Allora per non rischiare decido di non fare colazione a casa, di iniziare a cornetti e farine bianche già dalle sei di mattina.

Il bar sotto casa è aperto acca ventiquattro, come si dice, e non è un modo di dire. Si passano la staffetta ragazze varie, un tipo albanese, barman locali maschi dal carattere diffidente. Mi hanno visto un po’ tutti, a tutte le ore. D’estate spesso arriva la polizia alle tre di notte e fa un gran casino, la sento chiaramente dalle finestre aperte del quarto piano che affacciano sulla pensilina del bar. Ha l’insegna a luci rosse non a caso, ha accanto un finto bingo che funziona da ricettacolo di magnaccia e altra gente losca – alle dieci di mattina vedi uscire dalla porta stangone biondo platino impellicciate che vengono appunto a fare colazione al bar – e poi ha una sala videopoker nascosta da una tendina nera che dovrebbe coprire le malefatte che si compiono là dentro.

Mentre mangio la treccia ai cereali e pera, atto inaugurale della mia giornata fatta di fiorellini messi intorno alle gabbie per sopravvivere, la ragazza dietro al bancone si lamenta delle zingare nella metro. Con il collega albanese. Chiudo gli occhi e addento l’ultimo morso di treccina digrignando i denti. Hanno appena attaccato tutt’e due dandosi il cambio con gli altri due che nel frattempo stanno ancora in giro nel locale sfumacchiando e raccogliendo i cocci della notte.

Eppure serve a svegliarmi, più della colazione sana che avrei dovuto prepararmi in otto minuti a casa. Sì mi potevo anche svegliare alle cinque e fare colazione con calma, ma considerando che ho messo la testa sul cuscino alle due per finire di preparare la lezione, già così è un mezzo suicidio. E non avevo alternative, dovevo studiare e poi una volta ripetute le cose che non leggevo dagli anni universitari, c’è quella parte di me che non si ferma e vuole capire come non diventare l’automa che entra in classe e spiega cose pallose di cui non frega niente a nessuno, e che inizieranno a odiare. E allora metà del tempo se ne va a inventare strategie educative per farli appassionare, video, canzoni, giochi di gruppo e boutades varie. Del resto l’unico momento bello della mia giornata è quando entro in classe, chiudo la porta e sto con loro, mandando affanculo tutti gli adulti zombi come me con cui devo interfacciarmi tutto il giorno. Con loro ritorno umano. L’unico momento bello della mia giornata, anzi della mia vita in questo periodo.

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Fuga dal foglio bianco

Oggi le Fiabe Atroci ospitano un mirabile racconto epistolare su uno dei più antichi problemi dell’umanità: la paura del foglio bianco.

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Fuga dal foglio bianco

di Vincenzo Conte

 

E’ da un po’ che penso che sarebbe bello scrivere un piccolo raccontino comico, giusto per te, per farti fare due risate…

Però mi sono scontrato con la solita sindrome che mi prende ogni volta che mi metto a scrivere qualcosa: davanti al foglio bianco mi blocco e scappo via! E’ veramente una maledizione per uno che di mestiere vorrebbe fare il giornalista e che si ritrova pure a scrivere qualche articolo noiosissimo di tanto in tanto! Credo che anche il mio capo ne soffra, ma lui ha risolto in un’altra maniera: lui non scrive, lui detta alle segretarie! Il che è un modo ingegnoso di venirne a capo, però io ancora una segretaria personale non me la posso permettere… Continua a leggere “Fuga dal foglio bianco”

VIPASSANA

Nuova ospitata (la terza) nelle Fiabe Atroci, anche questa al femminile

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VIPASSANA

 di Titti Demi

 sunset

Arrivo alla stazione di Faenza e lo vedo. Magro, borsone nero, seduto a gambe incrociate e intento a leggere un libro che, per presbiopia precoce, non identifico. Ha la schiena dritta e l’aria di quello che “io sto nel qui e nell’ora, sono nel respiro e voi siete dei fessi.”

E’ quasi sicuro, anche lui aspetta la navetta delle 14:00.

Sì, sì! Ma mò sono le 7:30 ed io non ci ho un cazzo di voglia di piombarmi sul mio di borsone e soprattutto mi sturba non poco tirare fuori il tabacco dinanzi a codesto presunto compagno di viaggio.

Un po’ scoglionata mi allontano verso il centro e inizio a pensare che forse non è stata una buona idea, che magari se a quell’idiota di test a risposta sincera non avessi mentito di brutto ora non sarei qui con questa vaga, vaghissima sensazione che, come disse la benedett’anima, se di amore non si muore un po’ certo si rincoglionisce.

E poi la mattina a Faenza che fai?

C’ero già stata secoli fa con un ex, argentino sassofonista alcolizzato, tre aggettivi che negli anni hanno sostituito il suo nome, e ora seduta su questi gradini freddi, gli stessi probabilmente su cui incollammo il culo anni fa. Di tutta quella storia non mi sovviene nulla, al chè mi rullo un po’ di tabacco e con un tiro onoro l’oblio di lui e me stessa sopravvissuta a uomini decadenti.

Sono le 10:00. Mi tocca non pensare che ancora una volta sto qua a causa di, o per circostanze che, o chennesò…

Mi metto a cazzeggiare tra mercato, biblioteca, museo della ceramica, cessi pubblici e internet point; trasportandomi di qua e di là, montando e smontando la rabbia, scolando litri di caffè ognuno in un bar diverso e fumando sigarette, ogni volta l’ultima.

Merda, manca ancora un’interminabile ora! Mi metto su una panchina lungo il viale della stazione, passa un maschio poco evoluto che sol perché guardato negli occhi pensa di aver rimorchiato, napoletano con accento emiliano – no, il numero non te lo do che sono di passaggio e fra poco il telefono sarà inesorabilmente spento, pace all’anima sua.

La navetta è già fuori che ci aspetta e vedo pure che siamo in tanti coi borsoni e con l’espressione “ma che minchia ci aspetta?”

Ci riconosciamo nella nostra solitudine. In quel frappè che partiamo mi rammento i 5 principi a cui attenersi, dei primi tre me ne fotto: non rubo non mento (al test sì) non sono venuta qui per scopare; sugli altri due so già che qualche maligno sta facendo previsioni e scommesse.

E qua mi sale il magone, mannaggia! Mi vedo piccola e tossica e fanculizzata e per dirmi che non è così mi do alla fattanza prima dell’astinenza, chiamo e mando sms a chiunque, mi rullo sigarette di due tiri a volta, e poi, giuro, non ci volevo proprio pensare ma  fra 10 giorni sarò troppo purificata e illuminata per farlo, allora ho deciso che è meglio una incazzatura oggi che la gnorri domani e ti chiamo, ti faccio sentire brutto, ti sbatto il telefono in faccia perché non so dirti che ti amo.

E’ ora, si parte.

Già mi sento più spiritual.

NO, NON E’ PUBBLICITA’ OCCULTA ALLA COOP

Un altro racconto esterno (e atroce) ospite delle fiabe atroci. Anche questo ambientato a Bologna come quello di Via Marsala, ma questa volta di sesso femminile

Gianluca

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NO, NON E’ PUBBLICITA’ OCCULTA ALLA COOP

di A.L.

Sabato stamattina, mi sveglio presto, rimango un po’ a crogiolarmi nel letto e il pensiero va a Francesco. Penso a lui a quello che vorrei dirgli, penso a come reagirebbe alle mie parole, penso ad ipotetici incontri, a ipotetiche situazioni. Mi scappa una lacrima di emozione, perché non riesco a non volergli bene e la cosa mi commuove, poi mi alzo, mi faccio la doccia ed esco per andare all’ufficio anagrafe. Uscendo da lì mi dirigo verso la Coop San Vitale, in macchina, ma una volta arrivata, mi accorgo che il parcheggio è a pagamento, quindi, con i coglioni girati, mi dico:

«mah, quasi quasi vado alla Coop San Donato, li c’è il parcheggio anzi no, non vado»

Supermercato

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