gabbie-mentaliAprile 2020. Siamo in cattività. Costrette e costretti a casa e con una marea di relazioni e comunicazioni mediate e non dirette. Quelle dirette, i rapporti in carne e ossa con familiari o conviventi risentono di questa cattività. Ci troviamo bloccate e bloccati dove eravamo nel momento in cui non abbiamo più potuto circolare. Magari per molti di noi sarebbe stato diverso 6 mesi o un anno fa, diversissimo.

Siamo bombardati. E non uso a caso questo termine: siamo assediati, minacciati, terrorizzati, attaccati (volgetele anche al femminile).

Tutte queste espressioni fanno parte di una macro-espressione che si fonda su un grande concetto metaforico: la discussione è una guerra. Accanto a questa grande metafora, che sottende alla comunicazione soprattutto in questi giorni, ne abbiamo un’altra: la malattia è una guerra.

vi amo tuttiOra, io dico queste cose perché le ho studiate. Ma qualcuno potrebbe dirmi anche che sono cazzate. E io potrei rispondergli: “ma io non posso parlare con uno che non ha la minima nozione di linguistica strutturale”. E ricominciare la guerra. Ma non serve a niente e il fatto che le abbia studiate non significa automaticamente che siano vere, significa che una collettività ha pagato le tasse per provare a tenere in piedi una struttura per farmi imparare e farmi fare qualcosa di utile per me e per la società.

Non darmi le chiavi per un sapere assoluto su cui ho diritto di parola solo io.

Siamo in cattività. Se analizziamo il linguaggio quotidiano dei media è un linguaggio letteralmente terroristico: notate quante volte i termini legati ai concetti metaforici della guerra vengono usati.

Molte persone, anche provenienti dalle zone più colpite (un’altra metafora bellica), hanno chiesto di non declinare la malattia in termini di guerra. Perché come tutte le questioni linguistiche, non sono solo parole, ma sono la punta dell’iceberg di pensieri e di cose: lo stato di guerra sospende la democrazia, permette la militarizzazione dei territori, concede statuti speciali, reprime ogni parola che dissente, anche quando si basa su legittimi dubbi e non dà risposte ma pone domande.

Non è detto che lo sia, ma può diventare l’arma (appunto) principale di qualcuno che vuole imporre un pensiero. Droga le relazioni tra le persone, rende invivibile la vita.

In questo momento si dovrebbe collaborare a risolvere i problemi più urgenti, partendo soprattutto da chi questi problemi li ha, cioè un particolare territorio italiano. Ma si sono creati collateralmente altri problemi grossi: a Torino ad esempio i vigili urbani denunciano un aumento spropositato di TSO, a Trento si è imposto d’urgenza l’allontanamento da casa di chi usa violenza domestica (cosa giusta ma mai fatta fino ad ora perché lo stato di pericolo di violenza domestica attuale è amplificato ovviamente), e la situazione psicologica della popolazione rischia di diventare esplosiva.

menteSiamo in cattività, sottoposti anche contro la nostra volontà alla televisione e alla lettura “ufficiale” della realtà, ma abbiamo la rete. La logica della rete è diversa dalla televisione: può essere costruttiva o distruttiva, può tessere relazioni o seminare odio. Ma in questo momento è diverso: per quanto difficile staccarsi, fino a ieri si poteva mandare a quel paese tutto e andare a farsi una passeggiata, chi in città, chi in campagna, chi al mare, chi in collina, in montagna. Ora, e tutti/e speriamo per quanto meno tempo possibile, no.

Questo significa che è tutto amplificato perché è imposto h24, o autoimposto, o enormemente indotto. Non sempre è facile fermarsi e guardarsi dentro, fare cose costruttive ed edificanti, dipende anche dalla situazione che si ha intorno, dai contesti. Questo significa che è facilissimo svegliarsi, aprire internet, leggere cose che ci fanno saltare i nervi e attaccare. Attaccare. Metafora della guerra.

E se invece della guerra usassimo la metafora della danza? Nel passo che riporto qui sotto (che è una parte della mia tesi di laurea Gli ordini simbolici di metafora e metonimia) ho raccontato queste riflessioni del famoso linguista George Lakoff, da un testo storico della neurolinguistica che è Metaphors we live by.

Non riesco a trovare soluzioni per il momento che stiamo vivendo, ma tradurrei questi pensieri nelle seguenti proposte: stiamo leggendo qualcosa che ci fa paura? Cerchiamo di capire il punto di vista di chi lo sta scrivendo. Stiamo leggendo tra le righe un meccanismo sociale diffuso e o una dinamica del potere che ci turba? Probabilmente non è la prima mossa che ci viene quella che lo contrasta. Vogliamo far passare dei messaggi? Abbiamo degli spazi, usiamoli cercando di “tenere in ordine la casa” (metafora della cura), non usiamoli per aggredire e nello stesso tempo cerchiamo di non cadere in provocazioni più o meno consapevoli, alimentando discussioni belliche tipo commenti provocatori sotto post altrui che non aumentano la comprensione e non aprono dialoghi costruttivi.

Ricordiamoci delle case degli altri, degli spazi pubblici virtuali che sono amplificatori delle parole, perché un conto è mandare affanculo una persona conosciuta in privato, un’altra mandare affanculo uno sconosciuto in un sito pubblico. Crediamo che la realtà virtuale sia l’unica realtà rimasta? Non è così, la realtà virtuale elide, come fanno le metafore, parti considerevoli di realtà: non usiamo la voce, non vediamo le espressioni, i corpi di chi sta esprimendo un’idea, abbiamo solo parole che rimandano a idee staccate dal contesto. Le persone, le vite, vengono prima delle idee, letteralmente.

Servirà a qualcosa tutto questo che sto scrivendo? Non lo so, in questo momento serviva a me. Il fatto che lo dica non vuol dire che lo sappia sempre fare, per questo mi serve dirmelo.

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👉 La metafora, la guerra, la danza

🎯 «E se un giorno ci accorgessimo che la bottiglia non ha veramente un collo, il tavolo non ha le gambe su cui infilare i pantaloni, il sangue non circola ma segue traiettorie più complicate, che tutto il nostro linguaggio quotidiano si è appiattito su una serie di astrazioni e semplificazioni che ci fanno perdere il senso della realtà? Sapremmo scoprire dove si trova il meccanismo per uscirne fuori, per riconoscere il rapporto tra le parole e le cose? Cosa ha a che fare tutto questo con una materialità che scompare sempre di più, capacità relazionali comprese, e con un potere sempre più immateriale e apparentemente neutrale?»