Luglio 1996
Mare ca sape tare comu sape liare,
mare ca comu sta musica
nu se face mai dominare.
Sud Sound System
Cosa c’è al di là di questi momenti non riusciamo a capirlo. Non riusciamo a vedere cosa c’è dopo la trappola, dopo la ragnatela in cui siamo finiti senza nemmeno accorgercene. Non riusciamo a decifrarlo questo rebus, quanto è fatto da nostre paranoie e quanto è invece un vero assedio. Cosa dobbiamo fare per vivere tranquilli? Dobbiamo cambiare vestiti, mentalità, abitudini o che cos’altro, forse sono gli orari che non vanno bene, o il modo in cui camminiamo per strada? Camminiamo troppo lenti per la città, o magari dobbiamo solo cambiare strade?
Non riesco a dormire e con gli occhi sbarrati guardo scorrere l’Adriatico dal finestrino. Betty invece si è addormentata accanto a me, lo scompartimento è pieno come sempre nei periodi che si affacciano alle vacanze e ci ho già fatto l’abitudine, anzi bene ci è andata che due posti li abbiamo trovati. Dopo che siamo riusciti a catapultarci al volo sul treno dell’una e trentanove, l’ultimo della serata, il più disperato. Dopo che senza mollarci un attimo siamo passati dalle rispettive case il tempo di prendere lo strettissimo necessario, come se stessimo andando a fare un fine settimana fuori, ma attenti che non ci fosse nessuno all’entrata di casa sua e a quella di casa mia, del relitto. E quasi ci sembrava strana quella pace tardo serale mentre in Piazza c’era la guerra. Poche ore fa.
Non sappiamo nulla degli altri, siamo preoccupati ma anche liberati. Non sappiamo se da una persecuzione mirata nei nostri confronti o da una semplice azione di ordine pubblico, nemmeno questo sappiamo, se c’è un motivo politico dietro tutto questo o è semplicemente un problema tutto nostro interno, della nostra incapacità di stare al mondo. Prima almeno era tutto più chiaro, chi stava con lo Stato e chi stava contro, e si facevano la guerra. Nemmeno questo abbiamo noi, ma nemmeno lo vogliamo. Quanto ci siamo divertiti quest’anno, quante risate ci siamo fatti. Quante storie ridicole e grottesche abbiamo vissuto, quante avventure senza senso.
Il nonsense è diventato il nostro sesto senso per evitare la serietà della vita che ci piomba addosso e non sappiamo affrontare. Solo che tu riesci a dormire bella mia, tu riesci ad acquietare la mente, io sono ancora qui a rimescolarmi le immagini nel cervello per il mio solito vizio di non riuscire a staccarlo, per il solito circolo vizioso di cercare il senso nel nonsenso.
Arriviamo a Lecce intorno alle undici.
La stazione affollata di madri padri nonne e zii con l’accento conosciuto mi rimettono il buon umore ma mi ricordo subito che non c’è nessuno ad aspettarmi, perché nessuno sa che sono qui.
«Che caldo» dice Betty frastornata.
La porto al bar e ordino per entrambi il caffè con ghiaccio e sciroppo di mandorla. Lo beve distrattamente, mentre ce ne andiamo mi dice però, buono come se avesse le reazioni sensoriali ritardate. Trovo una cabina e chiamo Phil. È l’unico che non abita con i genitori e sono quasi sicuro che abbia una tenda da prestarci. Non dovrebbe lavorare di domenica e spero di non svegliarlo.
Tutto come previsto a parte che stava dormendo, ma il rincoglionimento della sveglia violenta viene sostituito dalla sorpresa di sentirmi all’altro capo del telefono. Gli spiego brevemente le nostre intenzioni e gli intimo subito di non fare parola con nessuno, ma veramente nessuno. Mi dice di avere la tenda da prestarci e si impunta per venirci a prendere, non volevo disturbarlo così tanto ma un po’ ci speravo sapendo che il mio piano di prendere l’autobus che porta sullo Jonio è in realtà più che un’incognita.
Gli dico di fare con calma e prendo appuntamento in Piazza Mazzini intorno all’una, da lì andremo insieme verso il mare. Betty è vispa, ha capito che le cose volgono per il meglio ed è eccitata dall’arrivo nella città sconosciuta. Io ho speso le ultime energie mentali per questa chiamata e al contrario di lei non ho dormito. Cerco di districarmi nel labirinto semisconosciuto di Lecce vecchia bastonato nelle tempie dal sole a picco e troviamo rifugio finalmente su una panchina della villa comunale. Ci sediamo e l’ombra dei palmizi altissimi mi allevia la sofferenza, Betty scarta i pezzi di rosticceria che abbiamo comprato, ne mangio un po’ ma inizio a crollare prima sullo schienale e dopo lei capisce e accompagna la mia testa sulle sue gambe, mentre intanto finisce di mangiare anche il mio rustico.
Mi gira il mondo e ho lo stomaco chiuso, riesco ad addormentarmi mezz’ora, quando mi risveglio la trovo a leggere il libro dell’esame che aveva interrotto il pomeriggio prima al parchetto di Bologna, come se niente fosse successo. Guardo la copertina davanti ai miei occhi, mi metto una mano sulla fronte e inizio a piagnucolare dicendo oddio l’esame, no!
Betty ridacchia e mi dà il buongiorno mentre mi accorgo che la sua mano sotto la mia maglietta sta accarezzando il mio fianco e si avvicina piano ai capezzoli senza toccarli mai, forse è già da molto lì ma me ne accorgo solo ora.
Le ricambio la cortesia iniziando a far camminare la mia mano sulle sue gambe dove ancora mi trovo appoggiato con la testa, lei le schiude leggermente e dall’altra parte della scena finalmente arriva con le dita ai capezzoli accarezzandoli e stringendoli. Continua a risalire e infila un dito tra le mie labbra. Accidenti fa sul serio.
Vado avanti lentamente, non ci diciamo niente e continuiamo così per alcuni minuti, fino a quando le sue gambe non sono abbastanza dischiuse da poterle accarezzare la clitoride con la mano nascosta dalla gonna. Ha un piccolo scatto di piacere e morde con la sua mano la carne del mio petto, io continuo senza fare troppo caso al piccolo dolore che mi ha inflitto, continuo lentamente, senza affondare e lei continua a pizzicare e si avvicina alla cintura dei miei jeans estivi tagliati a metà, eredità degli anni Ottanta. Infila la mano tra i miei peli e io ho uno scatto di paura. Mi rendo conto del luogo in cui ci troviamo e le arresto la mano.
«Dai Betty ci vedono.»
«Ma come? E finora?»
«Sì, ma non ce la faccio sulla villa di Lecce.»
«Te ne sei ricordato appena ti ho toccato il cazzo.»
«Già.»
Mi prende tra le braccia e mi guarda sorridendo. Non si impunta su questo, capisce i miei limiti, li accetta senza per questo giustificarli. Capisce che fa più scena su una panchina una ragazza che tocca un cazzo di un ragazzo che tocca una fica, fermi restando la panchina e i personaggi. Funziona così, e io ce l’ho dentro.
Ma tra poco scapperemo via, anche da qui.
Phil lo vediamo attraversare Piazza Mazzini e avvicinarsi con andamento malandato e comico verso la fontana dove lo stiamo aspettando. Cammina con le punte dei piedi lievemente aperte e le ginocchia flesse, porta dei jeans strappati e delle Cult insostenibili con questo caldo, ma in macchina ha sicuramente zoccole e costumino.
Ha l’aria da brutto ceffo terrone per il turista medio che si aggira nella città alla ricerca di monumenti barocchi, aria confermata dalle gote perennemente rosse, gli occhiali da sole enormi a specchio e i capelli a spazzola puntati verso il cielo dal gel. Ma appena ci individua, e ci mette molto a individuarci, raddrizza la camminata, alza le braccia e sfodera il suo splendido sorriso da ragazzo viscerale.
Mi abbraccia, si presenta a Betty, scuote la testa dicendo mo’ mi hai svegliato e come minimo mi racconti tutto, tranquillo che con me non esce niente lo sai, ci aiuta subito a raccogliere le borse e prepara la fuga dal cemento della città barocca verso le scogliere joniche.
Durante il viaggio elargisco sinteticamente la storia del mio anno accademico, soffermandomi sulle ultime ore.
Nel frattempo guardo la campagna e gli ulivi che schizzano accanto alla superstrada di Gallipoli e prendo il vento con il braccio fuori dal finestrino spalancato. Urlo nel raccontare anche perché Phil ci spara subito il ragamuffin nelle orecchie. Sembra stordito ma quando tocco i punti salienti del racconto mi fa capire che è attento, solo che non si stupisce più di niente. Betty è distesa deliziosamente sul sedile posteriore con gli occhi socchiusi cullata dai sensi violenti del Sud in cui è incappata. Nelle pause delle chiacchiere con Phil ascolto il profumo del vento e ritrovo una parte di me dimenticata da mesi.
La direzione è Porto Selvaggio. La lunga discesa a piedi in mezzo alla macchia verso il mare blu, quella discesa che da piccoli si faceva soltanto a Ferragosto, infagottati di roba da mangiare, e dopo le donne più premurose raccoglievano tutte le plastiche e le cartacce per non deturpare il paesaggio, e maledicevano la salita del ritorno così poco abituate loro alla vita fuori dai paesi e alle strade collinari. Fuori dal Ferragosto è ancora un paradiso quasi deserto. E da qualche anno ci siamo andati a portare i nostri paradisi artificiali. Ma attenti a copiare le cose buone delle donne, attenti a non lasciare nemmeno i mozziconi, almeno ci tentiamo. Più in là dalla spiaggetta, verso destra, verso il Fico d’India, c’è la zona dei nudisti, non ci siamo mai stati e ci fantastichiamo molto ma nemmeno abbiamo capito bene dov’è. Forse perché è in mezzo alla scogliera che cala a picco sul mare profondo, non è certo una spiaggia affollata di piselli al vento, deve essere davvero una zona ai confini della civiltà.
Il timo lo senti dappertutto e non lo vedi, trovi sempre e solo la salvia selvatica che non sa di niente e odora di arido e pini ed eucalipti incerti. Non c’è l’ombra di un fico né di un fico d’india mentre scendi dalla stradina, solo macchia mediterranea e pietre millenarie.
La nostra salvezza dalla follia è sempre stata qui a due passi, per fortuna, e ci sono volute le sparatorie e le morti per difenderla e continuare ad avercela.
E infine dopo la fatica il mare che ti ripaga di tutto.
In cui ci tuffiamo senza ragionare, senza ricordare cosa ci è successo fino a dodici ore prima, perché il mare lava tutto sempre.
Ci addormentiamo in pineta, dopo più di un’ora in acqua, ognuno con la sua stanchezza motivata, e ci svegliamo dopo ore quando ormai il pomeriggio è inoltrato e i pochi bagnanti lasciano il posto alle zanzare del tramonto.
Lo guardiamo il tramonto fumando l’erba di Phil e senza più paura di nulla. Siamo liberi. Quando la fame sale, risaliamo anche noi la stradina e andiamo ad albergarci per le prossime ore al Fico d’India, l’unico locale indie dello Jonio che da qualche anno ci fa passare le serate senza l’obbligo della disco commerciale, con la veranda simil far west tinta di arancione che guarda a poche decine di metri lo strapiombo delle scogliere e le pinete, ma al di qua della strada provinciale, come dire non siamo mica palafittari abusivi sulla spiaggia. La veranda arancione che si tinge di un colore indicibile quando arriva il rosso fuoco del tramonto jonico.
Ci accorgiamo che sono già tanti i ragazzi disseminati qui in vacanza, ad ora aperitivo cittadino si ritrovano a mangiare frise e bere birra e noi ci mischiamo tra loro. Non ci sono facce note bolognesi né salentine, lo preferisco, anche se Phil come al solito sembra conoscere tutti.
C’è in programma il concerto di Daniele Sepe e decidiamo di restare fino a sera, poi si vedrà cosa faremo e dove alloggeremo, io dico a Phil di non sentirsi obbligato a restare con noi ma lo dico solo per premura, lo vedo che si è integrato benissimo nel nostro ménage e stiamo facendo quello che vogliamo. Anzi c’è un’aria strana tra me e Betty, tra il complice divertito e il non detto promiscuo, Phil l’ho sempre trovato sensuale nel suo modo in alternanza spiccio e dolce, quando esce fuori dalla sua armatura coloniale, e so che Betty lo trova sensuale allo stesso modo mio, ce lo siamo detti spesso e lo abbiamo capito che tutto sommato abbiamo gli stessi gusti, fa parte della nostra strana intesa amicale. Ma so che non succederanno cose così hard, non ne sono ancora capace.
Sotto il cannizzo della veranda passiamo ore liete, con le frise e i capperi e le angurie e le birre e le piña coladas, quando sta per iniziare il concerto ci alziamo con equilibrio incerto e andiamo verso il centro della pista di fronte al palco, ci sediamo a terra soddisfatti e Sepe parte con la sua intro sui ritmi di lavoro, una tecno alienante che si dirada gradualmente e lascia lo spazio al ritmo lento, il ritmo del cuore, quello che dovrebbero seguire le nostre vite se fossero libere. Un tripudio socialista meridiano nemmeno fossimo a Cuba.
Dopo il concerto, Phil si intrattiene a sbevazzare al bancone con un gruppo misto delle nostre parti e io mi allontano con Betty verso la scogliera a guardare le stelle sul mare. Passiamo a piedi la stretta provinciale e siamo subito tra gli scogli appuntiti. Facciamo qualche metro per allontanarci dalla luce artificiale e ci sediamo su uno scoglio cercando di farci meno male possibile. Lei si siede adagiandosi sotto di me tra le mie gambe aperte e restiamo a guardare l’orizzonte blunotte per un bel po’.
Riparliamo di gelosia e di sentimenti, ma stavolta davvero, stavolta senza maschere. Ora non c’è più niente da tenere in clandestinità, ora lo sappiamo e sappiamo anche che sarà difficile portare avanti questa emozione, questa vita così com’è. Ma non per la polizia e gli sgomberi e la fauna underground bolognese e tutto, ma per come siamo fatti noi. Perché ci siamo accorti che quello che stiamo tentando di fare è bello ed è impossibile.
Portarci al di là del guado, al di là del superamento delle cornici e delle gabbie, al di là della morale borghese secolare, delle doppie morali e delle doppie vite, al di là della famiglia mononucleare e al di là del capitale, al di là delle logiche binarie. Al di là della nostra capacità di sopportare tutto questo senza scoppiare, i nostri cervelli e i nostri sensi al di là del bene e del male. Nel trapasso verso la nuova era dopo il piccolo mondo antico portarci anche i sentimenti, il volersi bene, l’amore che oramai non riusciamo nemmeno a nominare per quanto è stato consunto di letame idealista.
Ci diciamo questo mentre guardiamo le stelle e le luci delle lampare e lei decide finalmente che è questo il momento, che qui ed ora deve succedere e senza troppi sotterfugi romantici, senza colpi di teatro e urla isteriche da oddio quanto siamo coinvolti. La sua testa si volta, i suoi occhi lasciano le stelle e le lampare e cominciano a guardare i miei con sfida dal basso verso l’alto. Appoggiata ai miei jeans strappati, ancora quelli, le sue mani mi sbottonano e io capisco che è finita, è finito questo anno stupendo e maledetto che è stato il mio drammatico primo anno e che forse sarà anche l’ultimo anno per un sacco di cose che ci sono care.
È finita perché sta iniziando qualcos’altro, mi distendo sulla roccia appuntita soffrendo in silenzio e capisco che il mio sesso sta per essere posseduto dalle labbra di una persona che amo nel mio modo problematico, che tinge il mio mondo di blu solo per il fatto di stare con lei.
E che nel suo modo problematico mi ama.
Listen without prejudice, I don’t belong to you and you don’t belong to me.
La sua bocca mi divora e mi possiede, mi risucchia verso la parte totale di me che sta per uscire, il piacere totale, che mi toglie le volontà e alla fine mi lascerà qui, in semicoma con le punte di roccia infilzate nella schiena, e lei aggrappata alle mie gambe che dopo avermi preso non lascerà nulla di me, in questo momento avrà dentro di sé tutto di me, perché come dice qualcuna un pompino è un pompino è un pompino.
E adesso la fine di tutto sarà l’inizio di tutto. Con o senza di noi, vicini o lontani lontane o vicine, saremo per sempre con noi. Anche se i fatti, le persone, le storie, le città ci separeranno.
Saremo noi.
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Un pensiero riguardo “L’ultimo anno (22) # L’inizio di tutto”