È sabato sera, nel giro di qualche ora la piazza si riempie di gente di tutte le età, dagli universitari ai cinni del liceo che vengono a scoprire la multicultura cittadina ai giovani lavoratori appena usciti dagli anni dell’autonomia. Tra il crescentone e gli scalini di San Petronio ci sono centinaia di persone, la calura imprigionata nel suolo sembra non dare troppo fastidio visto che sono quasi tutti seduti per terra. Noi arriviamo intorno alle dieci e riconosciamo il punk suonato con le chitarre acustiche dai nostri amici, quello d’epoca dei Clash e quello ecologista dei Crass e quello nuovo dei NOFX passando per gli Skiantos autoctoni e per le canzoni sconosciute dei gruppetti nostrani.
I nostri cervelli presi dallo sballo modificato del vino della mensa ci dipingono la piazza affollata come una tavolozza del Pazienza, e forse c’è qualcosa di vero in questa immagine. Riconosco Davide ad una delle chitarre e Cesare con un tamburello in mano, vedo Igor alle prese con una ragazza punk a me sconosciuta e tra di loro il bottiglione da cinque litri di vino, presumo proveniente da casa nostra. Poco vicino riconosco alcuni ragazzi delle case occupate e più indietro, vicino alla porta della chiesa, mi accorgo che c’è James, il tipo pazzoide che mi somministrò un pompino mesi prima. Dai movimenti loschi credo stia trafficando cartoni lisergici, non so se dalla parte dell’acquirente o del commerciante.
In questa serata afosa sembra che ci siano tutti e c’è soprattutto Betty e ci sono anche la musica e tutti i personaggi della casa-relitto. Gli amici di prima arriveranno anche loro tra un po’ da Piazza Verdi. Nel pezzo di strada fatto da soli fin qui in piazza io e Betty ci siamo tenuti la mano. Ora però ci disperdiamo in mezzo agli altri e passiamo un sacco di tempo lontani.
Appena mi vede Igor mi costringe a tracannare altro vino. Suono un po’ anche io appena si allenta la fase punk settantasettina, ma mentre sono nel giro dei suonatori mi accorgo che il Marinelli è arrivato anche lui ed è già in azione. Cerco di far vincere la mia parte libertaria libertina disinteressata e mi occupo dei presenti e delle presenti facendo finta di nulla. Poco dopo però non li vedo più e ho attimi di tensione attentamente mascherata che però si scioglie appena rivedo Betty che sta parlando con Giulia, la ragazza che curava l’orto della casa occupata. Devo pisciare. Mollo la chitarra e il cerchio musicante e sparisco in direzione questura. Poco prima di Piazza Galilei c’è una discesa agli inferi chiamata bagno pubblico, la gestiscono i borderline messi peggio della città come premio per la loro condizione e le incrostazioni presenti rimandano ad epoche passate del Novecento. Non importa, la pisciata è comunque liberatoria. Risalgo le scale verso l’overground rassicurante dei lampioni gialli e dopo qualche metro mi fermo a rollare un po’ di tabacco.
Il frastuono di musica e voci è attutito dai muri di Palazzo d’Accursio accanto a me. C’è una voce che parla piuttosto animatamente e proviene da via d’Azeglio, a pochi decine di metri dall’imbocco dove mi trovo. Mi giro di scatto perché sembra una telefonata e la voce mi sembra nota, infatti è una chiamata da un telefono mobile, un grosso telefono simile ad una ricetrasmittente che ho visto poche volte in vita mia, anzi una volta sola, ce l’aveva un parente farmacista che veniva alle nostre feste di compleanno con quell’aggeggio perché doveva essere continuamente reperibile. Riconosco anche il proprietario dell’aggeggio e della voce, Marinelli, che per fortuna è di spalle e non mi ha visto credo. Anzi sono sicuro, se mi avesse visto non continuerebbe così ad alta voce.
Mi nascondo dietro l’angolo e ascolto.
«Ti dico che è il momento giusto Maffei, ci sono tutti! Allora… no, non con quattro macchine, sono in centinaia qui, dovete arrivare minimo con venti tra macchine blindati e cellulari, chiama anche la finanza e i carabinieri… sì tutti… tra quanto, tra venti minuti? Va bene… no io quando me ne vado ti faccio uno squillo per farti capire che è il momento giusto, solo uno squillo sì, e tu capisci.»
Capisco tutto anch’io. E mi trovo sempre io con queste gatte da pelare maledizione. Corro verso la piazza, ma appena vedo la folla mi fermo. Non possono fare niente ad una folla, questi cercano noi. Oppure possono fare scoppiare la guerra civile. Ma se inizio ad urlare qui semino il panico. Del resto non posso tenere per me questa notizia. Ho pochi secondi per prendere la decisione. Lo dico a Betty e Davide, ho deciso, li vado a prendere.
«Scusate, Betty, ti devo parlare un attimo in privato.»
«Cos’è successo?»
«Senti è successo un casino, Marinelli, il tuo amico…»
«Oh ma allora è una fissazione!»
«No no no, ascoltami non c’entra lui, cioè sì c’entra lui, l’ho appena sentito che parlava al telefono con il questore, gli diceva di venire qui e attaccare!»
«Marco tu sei ubriaco!»
«No ti prego credimi!»
«Ma sei sicuro?»
«Aveva quei cosi mobili, quei telefoni, parlava con Maffei, il capo della polizia, gli spiegava la situazione qui in piazza e diceva di arrivare con venti mezzi, non so cosa vogliano fare, forse vogliono sgomberare o magari creare casino per incastrarci.»
«Marco guardami negli occhi: è tutto vero?»
«Te lo giuro amore mio!»
«Oddio no!»
«Dobbiamo dirlo a Davide.»
«Lo vado a chiamare, resta qui!»
Resto da solo per qualche secondo e mi siedo all’angolo basso della facciata incompiuta. Riprendo fiato e appena tornano i miei due amici spiego la telefonata a Davide che diventa furioso. Cerca di chiamare i ragazzi delle case ma molti di loro sono dispersi in giro. Betty lo dice a Giulia, ma a questo punto evitiamo di fare un capannello troppo grande che attirerebbe subito l’attenzione. Non sappiamo se vogliamo la guerra civile. La cosa sicura è che noi vogliamo vivere in pace, anche se c’è poca giustizia in questa pace. Riesco a recuperare anche Cesare e Igor.
Arriva un compagno delle case, Max, che era presente la sera dell’irruzione ed è sempre stato uno dei migliori portavoce con il mondo esterno. Non è stato implicato direttamente quella sera, a parte il fatto che si è visto piombare in camera tre uomini armati in divisa, ma non gli hanno trovato né droga né armi e quindi lo hanno ignorato.
Ma ci sono ancora quattro suoi compagni in cella.
«Andate via voi del relitto» ci dice. «Betty vai via anche tu. È inutile che seminiamo il panico dicendolo a tutti, del resto non arriveranno certo per attaccare, non ci sono i presupposti, cercheranno di fare smettere la caciara, come intimidazione. È questa la linea adesso. Ho visto un compagno del 36 lì sul crescentone, magari lo avverto in modo che stiano in campana anche loro. Ma dov’è questa spia?»
«In effetti non c’è, è sparito, era lì in via D’Azeglio che telefonava.»
«Si sarà accorto che abbiamo mangiato la foglia.»
«L’ho visto adesso Luigi» interviene Giulia, «si stava avvicinando e poi è scappato verso il Nettuno, l’ho visto subito dopo che sei arrivato tu Marco e hai preso in disparte Betty. Ha avuto uno scatto strano, come se avesse visto qualcosa.»
Guardiamo d’istinto verso il Nettuno e vediamo arrivare una luce forte, orizzontale e indistinta, bianca. Ma dopo un attimo capiamo che la luce non è una, sono otto fari allineati di quattro jeep azzurre.
«Ragazzi andate via» ci urla Max.
«Io rimango» dice Davide e si avvicina alle chitarre.
Cesare e Igor lo seguono, io non ho il tempo di prendere una decisione che mi ritrovo già un gran via vai di persone qui ai piedi della facciata. Hanno visto le jeep.
Mi sento prendere la mano destra da un’altra mano.
«Vieni tesoro» mi dice una voce all’orecchio e la mano mi trascina via strattonandomi con forza. Attraversiamo via Archiginnasio e sulla nostra destra arriva un’altra ondata di luci simile a quella di prima, riesco a riconoscere in una frazione di secondo il colore grigio delle auto della finanza, prima di essere definitivamente trascinato da Betty in via Clavature da cui iniziamo a disperderci correndo per le stradine del mercato vecchio.
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