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Nuovo Millennio
diario della militanza sentimentale
È inutile che continuo a cercare di definire i particolari, i dettagli, le sfumature che mi fanno piacere una persona. Come se davvero fossero dei pezzi di corpo o dei pezzi di anima, delle semplici caratteristiche. È inutile che cerco di spiegare i particolari del blocco alla bocca dello stomaco, perché quel blocco non è particolare, è universale, riguarda la totalità di quella persona e di me stesso e di tutti gli altri esseri umani, riguarda gli alberi le piante le montagne e il mare, riguarda i colori e le emozioni, tutte le emozioni.
È quando una persona ti piace e la ami qualunque cosa essa faccia.
Mi è capitato una decina di volte nella mia vita. Lo riconosco benissimo, qualunque cosa essa faccia, ogni volta che la incontro, che ci faccio qualcosa insieme, io e il mondo assumiamo una potenza inaspettata. Mi è capitato una decina di volte, a volte erano maschi, a volte femmine. E poche volte c’è stato il sesso. Ma la questione non è decidere cosa significa essere etero, essere froce o essere lesbiche, bi, tri, quadri eccetera, queer differenti, sofferenti o insofferenti alle etichette. La questione è decidere che cosa significa essere maschi o essere femmine o essere umani. E capirlo a partire da quella sensazione alla bocca dello stomaco, che poi casualmente è lo stesso punto dove si trova il cuore.
Mi è capitato la prima volta che era poco più che infanzia. Qualunque cosa facesse mi provocava quell’emozione. Lo vedevo a scuola chiacchierare, fare sport in palestra, camminare, lo vedevo in alcune pose dolci, addirittura scambiare effusioni con altri ragazzini. Frocia latente. Io me la cavavo più facilmente, ero timido e indeciso tanto che non facevo trasparire nulla della mia situazione rispetto ai desideri.
Lui no, esternava con una disinvoltura che sembrava non includesse la possibilità di essere tacciato di scarsa virilità dai suoi simili conterranei.
Il poco di amicizia che ci fu tra di noi bastò a farmi capire che la costruzione del maschile nella mia civiltà era una barzelletta, lo erano il non poter piangere, il non poter dimostrare amore verso i miei simili. Lo era cercare di racchiudere in schemi di genere questa sensazione impossibile alla bocca dello stomaco. Lo era il competere con gli altri maschi, con le nemiche donne, con la natura, con l’universo. Come se io non fossi parte dell’universo.
Perché l’altra questione è appunto questa dell’universo. Una volta, con una di queste circa dieci persone di cui sono stato innamorato dalla bocca dello stomaco – era una femmina – parlavamo di cosa significa innamorarsi. Lei diceva che a volte bastava un movimento, un tono di voce, uno sguardo a farle scattare l’interesse, la voglia, la passione. Anche questa una cosa poco spiegabile e sicuramente vera se le capita così. Ma a me funziona un po’ diversamente. A me funziona che la persona intera mi provoca l’interesse, la voglia, la passione qualunque sguardo o movimento essa compia. E non è una questione di infatuazione o colpo di fulmine, nel senso di seguire un istinto, è questione che quelle pochissime persone che mi hanno fatto scattare questa passione io le amo da sempre. A prescindere se ci sia andato a letto, a prescindere se siano maschi o femmine, a prescindere se riesca ancora adesso ad averci un dialogo, a sapere cosa fanno o come stanno. Stare con questa persona è come entrare in un’altra dimensione, in cui lo spaziotempo cambia i contorni. Ed è questo lo stato della rivoluzione, non leggersi tomi e attaccare tomelle sul perché e il percome del cambiamento strutturale del sistema capitale. È questa, la rivoluzione dello spaziotempo e della sensibilità, che tutti temono, che viene annullata ogni giorno nelle file di automobili, nell’alienazione del lavoro, delle relazioni, della comunicazione. Allora sì, rimangono solo gli sfoghi delle segretarie che si fanno sbattere sulle scrivanie dai capi, la carne da scopare cercata disperatamente nei sabati sera ossessivi, la fuga soffocante nelle coppie stabili che sono solo mitologie che ritornano continuamente nonostante tutti i tentativi di farle fuori, e lo sappiamo tutti anche se non sappiamo cosa farcene di questo sapere.
Io mi innamoro dell’amore, non dei pezzi o delle parti, e mi ricordo sempre quello che mi disse un filosofo pazzo delle mie parti, cioè che l’innamoramento è gratis e l’amore costa fatica.
Io soffro ancora adesso per il non riuscire a gestire questa presa che mi sorprende alla bocca dello stomaco, e spesso mi fa restare impalato, mi mette la paura di agire e di amare e magari mi rovina l’amore, quando riesco a viverlo con queste persone. Ma soffrire non significa dimenticare che quest’amore c’è e forse ci sarà sempre, perché a volte non è bastato non vedersi per anni perché finisse. Certo non vuol dire che deve diventare sesso, anzi a volte c’è proprio una grande paura che diventi sesso, o a volte il sesso diventa una grande tortura che ci infliggiamo, un’ansia che se poi sbagliamo, se non è come lo abbiamo sognato ci crolla tutto l’universo, perché l’amore per quelle persone è appunto tutto l’universo.
Il sensibilismo che imparammo in quegli anni era questo, la militanza sentimentale. Era l’unico modo per liberarci dal destino crudele dei binari che ci imponevano, spesso binari morti ma che ancora funzionano nelle nostre menti: produci consuma crepa, nasci cresci sfogati in giovinezza metti la testa a posto figlia invecchia crepa, leggi impara appassionati idealizza sogna torna nella realtà mòderati diventa cinico diventa frustrato ammàlati crepa, e soprattutto vivi con la paura di crepare, vivi senza vivere, senza amare te stesso le persone e tutto quello che ti circonda.
Era questa paura di crepare che ci mandava gli sbirri nelle nostre case e nei nostri sogni.
Nuovo Millennio
Sentivo che finiva,
e il giorno ce l’avevo addosso già,
e sembravo qualcuno in un altro posto,
ma stavo ancora là.
Ivano Fossati
Formati, ora siamo formati. Formati dalla vita, dalle storie, dalle università e dai tanti corsi post. Ma non abbastanza formati da reggere a quello che è successo in questi quindici anni che ci hanno fatti atipici e dislocati, perennemente relazionati e infinitamente soli.
Le facce che ho perso in questa città sono tante, e ora mi sono quasi tutte presenti, questo è il momento in cui ce le ho tutte qui. Perse perché scacciate, sputate fuori da questa città per motivi lavorativi, economici, per l’alienazione, perché hanno perso il posto, la casa, l’angolo per poter sopravvivere qui.
Ora ce le ho tutte qui, ora sono anche io una di queste facce, ora il détournement è compiuto. Ora ora ora.
Qualche giorno fa c’è stata l’ultima manifestazione cittadina per difendere l’ennesimo spazio in pericolo. Un presidio che si è trasformato in manifestazione spontanea, mille persone accorse in un pomeriggio quasi sotto zero, e ogni volta sembra che qui ci siano ancora persone e spazi che resistono. Ma l’apnea è forte, e non è questione di difendere il nostro piccolo orticello alternativo, è questione che essere stritolati e massacrati di lavoro, aspettare mesi e mesi di pagamenti che non arrivano, non poter sostare per le strade del centro, non poter accendere la radio in casa, non avere posti dove fare e ascoltare musica teatro e arte, essere tagliati in ogni manifestazione creativa, essere ingolfati nell’anima da nanopolveri provenienti da automobili e munnezza, tutto questo quando si manifesta insieme è troppo.
Ho passato tutto il tempo della manifestazione accanto a Lisa, una tipa con cui condividiamo lo spazio sociale di noialtri, ci siamo conosciuti un anno fa. Ci siamo visti a sprazzi durante quest’anno, per caso soprattutto, presi da mille impegni e incrociandoci in feste che arrivano alla mattina o negli aperitivi dove si fanno i mercatini biologici sociali, la nostra estrema salvezza che ci permette ancora di mangiare un’insalata che sa di insalata senza pagarla a peso d’oro, fin quando ci sarà lo spazio anche per le insalate. Ogni volta parliamo a lungo, la sera che ci siamo conosciuti un anno fa eravamo un fiume in piena, abbiamo parlato seduti al freddo per quattro ore, ci siamo ripromessi di vederci. Continuiamo a incontrarci per caso ma forse pretende che io faccia il maschio e la tampini.
«Voi maschi di oggi vi fate desiderare» mi ha detto alle sette di mattina dopo essere scappati insieme da uno matto che la perseguitava, nemmeno allora l’ho baciata, ma forse adesso è troppo tardi, o forse non è che mi andasse veramente di baciarla.
Mi va di vederla però perché è atipica, anche rispetto agli altri atipici che conosco. Ha addosso i segni di amori falliti, di anni di tentativi di rivoluzioni sentimentali, di soldi chiesti ai genitori pochi attimi prima di sprofondare nei baratri dell’indigenza. Non c’è futuro per noi, o forse sì ma non sappiamo più vederlo. La nostra generazione perduta, anch’essa, non riesce a immaginare il futuro.
Le piace la musica, anche se fatichiamo a trovare punti di contatto, ed è bello scoprirci guardinghi e diffidenti mentre nominiamo un gruppo o un artista di cui l’altra probabilmente sa poco o nulla. Forse è più affascinante così che ritrovare gusti comuni, e per fortuna ho smesso nell’adolescenza di giudicare le persone in base agli ascolti e alle letture. Questa città non ha mai smesso di farlo, chissà come mai nel terremoto generale si salvano sempre le cattive abitudini. Lisa non è un’intellettualoide pronta a tracciare schemi ed etichette, confini di genere artistico al di là del quale gli ascolti e le letture diventano deplorevoli, non mi passa questo. Lei teme di essere deprecata, ed è insicura per questo, ne ha paura, le si legge negli occhi questa paura quando durante le riunioni propone cose che i più scafati le contesteranno. Lei non lo sa, ma è stata la mia Anna di Francia durante la manifestazione.
L’ho invitata a pranzo, un giorno che ero a casa. Ha fatto un sacco di storie prima di accettare per via di acciacchi stagionali, poco tempo disponibile e quant’altro, e non era la prima volta che faceva di questi problemi. Prima chiede di essere tampinata poi si tira indietro, queste donne di oggi. Ho insistito ed è venuta, le ho fatto i miei piatti di battaglia più il pane fatto in casa nel forno elettrico che fa tanto sapore di famiglia. Non era convinta di quello che stava facendo, nella tana del lupo non si finisce così facilmente dopo tutte queste diatribe. Però ha mangiato molto, ha mangiato tutto, vuol dire che non aveva lo stomaco chiuso, è questo è importante.
Non siamo cambiati per fortuna. Abbiamo le stesse paturnie e le stesse emozioni di quindici anni fa, le stesse speranze di libertà che ci diede questa città quando siamo arrivati, ma le energie rischiano di finire. Io non lo so se resterò qui, se avremo modo di vederci ancora, questo potrebbe essere davvero l’ultimo anno ma non riesco a decidere a tempo indeterminato nemmeno la mia fuga.
«La mia cooperativa sta per essere ingoiata.»
«Che significa?»
«Significa che il pesce grosso ci sta mangiando, che nel frattempo non abbiamo più i lavori che il comune ci aveva affidato e che faranno fuori molta gente.»
«Come fossero giochi di borsa.»
«Esattamente, ma sono giochi di cooperative rosse.»
«Non cambia la sostanza.»
«No forse è anche peggio.»
«Sei preoccupata? Cosa farai se non ti rinnovano il contratto?»
«Che ne so… sono stanca più che preoccupata, abbiamo trent’anni e ci trattano ancora come tirocinanti, io non dico che voglio sposarmi e fare una famiglia, ma almeno non sentirmi eternamente in formazione, almeno quello che mi basta alla sopravvivenza.»
«Ti capisco. Bisogna inventarsi qualcosa, però.»
«Aprirci un campeggio vicino al mare, lavorare tre mesi all’anno e il resto vivere rilassati?»
«Magari… lo facciamo insieme? Dalle tue parti o dalle mie?»
«Vediamo.»
Siamo pronti alla fuga, ma per ora da soli.
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