Una sera mi trovavo dentro la Trattoria da Vito, a Bologna, in piedi nell’atrio antistante la sala grande, vicino alle foto e al pianoforte. Vidi Guccini passare e avviarsi verso l’uscita, lo chiamai: “Francesco”. Lui si girò e mi disse “oohh”. Ero giovane, ma la mia gioventù era quella degli anni Novanta, non degli anni Settanta.

Gli chiesi a bruciapelo: “Ma Keaton, chi l’ha scritta?”

“L’ha scritta Lolli”, mi rispose, con l’accento dell’Appennino Modenese. Mi guardò con la faccia che diceva cinno, brisa strazzer i maron, e se ne andò.

RITRATTO LOLLI 2.jpgMi vergognai naturalmente. Di diecimila canzoni scritte da lui e amate da me, gli andai a chiedere proprio quella che non ha scritto lui. Il fatto è che la mia canzone preferita di Guccini è proprio Keaton. Naturalmente è anche la mia preferita di Lolli. La querelle sulle differenze tra le due versioni, sui reali patrocini, su se e quanto scritto dall’uno e dall’altro, sul significato di quel “Lolli-Guccini-Lolli” come credit all’interno dell’album Signora Bovary, poco mi importano, e poco mi importavano anche allora, in quella seconda metà degli anni Novanta in cui facevo lo studente borderline a Bologna. Mi interessava il mondo che descriveva quella canzone. Mi interessavano la musica, il cinema, la politica, l’esistenza, la fine del cinema muto, come i Weather Report erano forti, le tastiere in cui tutti mettono le mani, quelle ingiallite dal tempo, un po’ scordate dall’ignoranza e dalla passione degli umani.

Il mondo in cui era importante che la gente non fosse una somma di persone sole.

Claudio Lolli ha detto esattamente tutto quello che nessuno di noi vuole sentirsi dire, ed è per questo che è stato volutamente e ostinatamente ignorato. Ha raccontato l’orrore scintillante di città dove si nasce e si muore in un grande ospedale, grattacielo moderno struttura di tipo aziendale, dove la morte è un fatto statistico del tutto normale. Ha raccontato di piccoli borghesi infami e imbecilli, che non sono l’altro da noi, ma siamo noi e lo sono le nostre famiglie che godono quando gli anormali sono trattati da criminali – leggi negri, froci, anarchici, vegetariani, femministe e tutto quello che attacchi ogni giorno su facebook per sentirti meno ossessionato, a seconda della chiesa nazicapitalista a cui appartieni. Ha raccontato di tanta gente che vive e non capisce niente alla ricerca di un po’ di allegria, di domeniche feroci passate ad ascoltar le voci di amici reclutati in pizzeria, la nevrosi di vivere con gli occhi chiusi alla ricerca di una compagnia. L’angoscia metropolitana che non è quella degli eroi, ma quella della prima comunione, della tenaglia tra consumatori automi e preti moralisti, la tenaglia del potere fascista e di quello capitalista che al fondo se vai a scavare trovi che sono la stessa cosa. Descritto così, con semplicità popolare. Come se fosse una cosa normale, come se fosse appunto, la normalità, la vita quotidiana. E quanti anni ci sono voluti, perché da solo imparassi anch’io, a rider dei preti bigotti e fottuti ed a infischiarmene del loro dio. Ma se qualcuno mi avesse avvertito il giorno della prima comunione, avrei mangiato, avrei bevuto e forse avrei fatto persino il buffone. E avrei guardato insieme a mio zio, le gambe di chi so soltanto io, e avrei sgravato la mia avventura del peso enorme di quella paura.

Sono tutte (quasi) parole sue, che ho citato a memoria senza virgolette perché da allora, da quel 1995 in cui lo conobbi, dieci giorni dopo aver messo piede a Bologna, non si staccarono più dal mio cervello, per indicarmi la via contraria a quello che avrebbero voluto farmi fare tutti quelli che hanno ridotto al silenzio le parole di Lolli, di Gramsci, di Pasolini, di De Andrè, ma anche di Rino Gaetano, Pino Daniele, Troisi, Bertoli, Pazienza, Fellini, Tondelli, Carla Lonzi, Mario Mieli, Alex Langer e di tanti altri durante le loro vite. Per poi farne dei fantocci inservibili da morti, dei santini concilianti, per non pensare più che quello zombie descritto e raccontato, quel mostro di normalità, siamo noi, sono io, sei tu e la tua alienazione, esattamente tu pilotato dal dio denaro e assassino delle tue relazioni per conto terzi. Non il potere fuori di te, gli altri, i politici e tutta la litania rassicurante del male fuori di te. L’orrore scintillante lo crei tu, e allo stesso modo il sol dell’avvenire dovrai farlo tu liberandoti da quell’orrore.

RITRATTO LOLLI 3.jpgLa tenaglia sociologica in cui è vissuto ed è morto Lolli, quella per cui era una specie di disadattato esistenziale di questo mondo, è composta da due tipi di persone: i tonti e i militonti. I tonti non vogliono sentire parlare di nulla che faccia loro stare male e non vogliono sentire nominare parole generali come società, movimento, ideologia, perché le ideologie sono crollate e oggi sono autorizzati a parlare solo i tecnici, cioè i servi dell’ideologia capitalista; i militonti parlano di tutto questo e distruggono la loro vita personale e le loro relazioni in nome di un ideale astratto, senza riuscire a metterlo in atto nelle loro vite. Con l’accelerazione della crisi liberista, tonti e militonti sono (siamo) sempre più assimilabili, tonti nella vita reale e militonti in quella virtuale.

Le canzoni di Lolli sono intime e politiche, sono astratte e concrete, particolari e generali, vanno oltre cioè la divisione forzata tra pubblico e privato, ed è per questo che sono pericolosissime per il simbolico totalitario capitalista, cioè per la mente dei suoi schiavi consumatori di realtà virtuale e merda reale. L’umore saturnino di Lolli, la sua impresentabilità al jet-set, l’osticità della sua ricerca musicale, hanno fatto il resto, e del resto i media capitalisti sanno benissimo sfruttare i punti deboli del nemico. È questa da sempre la dinamica di sistema, non servono i manganelli come nelle dittature classiche, o almeno non sono l’arma principale. Non serve imporre. Basta mettere un nerd sottopagato a scrivere l’articolo sulla morte di Claudio Lolli, da pubblicare subito sul sito della maggiore agenzia di stampa nazionale, nella settimana di Ferragosto. Permettergli di scrivere che “Lolli era un cantautore che si ispirava a Guccini e De Andrè”, questo più o meno ha capito girando su internet, questa testa di nerd. Come dire che Lou Reed si ispirava a Iggy Pop e David Bowie, più o meno. Un nerd che se avesse minimamente ascoltato almeno tre canzoni di Lolli gli sarebbero valse come un anno di terapia analitica. Se avesse uno straccio di cultura e di sensibilità. La cultura, la sensibilità: remember?

Del resto, pure lui, il Claudio in carne e ossa, proprio di venerdì 17 se ne doveva andare. Sprezzante del pericolo, fino alla fine. C’è un altro aneddoto della mia vita legato al Lolli catalizzatore di rogne. I protagonisti sono Marco e Rosario del mio romanzo L’ultimo anno*. Quelli veri, non quelli romanzati.

Marco e Rosario si danno appuntamento ad un centro civico alla periferia di Bologna per il concerto di Lolli. Marco esce dalla casa-relitto e prende il bus vicino casa, in Piazza Malpighi. Sull’autobus salgono altri ragazzi diretti al centro civico e capisce così dove dovrà scendere. Arrivato alla fermata, si catapulta per strada. L’entrata è proprio lì di fronte e senza capire nulla in pochi secondi dà una colossale tranvata all’infisso della porta d’entrata, tranvata che gli costerà fiumi di sangue versato e una cicatrice perenne sotto il sopracciglio. Al centro civico non hanno ovatta né alcol. Marco riesce a recuperare un Kleenex per tamponarsi, nel frattempo entra nella sala dove Lolli sta raccontando della malattia e della morte di Piero Ciampi. Mentre Marco si guarda intorno, scorge a una decina di metri il suo amico Rosario, a metà del corridoio vicino al muro di destra e accanto alla gente seduta. Gli va incontro anche per cercare conforto riguardo all’accaduto, che ancora gli fa male. Ma Rosario, appena lo vede e nonostante quello che vede, lo anticipa sconcertato: “non puoi capire cosa mi è capitato!”. E gli mostra la grossa fasciatura al dito della mano, che si è procurato poco prima di uscire dal panificio in cui lavora e venire qui al concerto, mentre affettava il pane. Correva l’anno 1996.

Non sarò mai come Lolli, pensavo in quegli anni. Non sarò mai così radicalmente ostile all’orrore scintillante, imparerò a viverlo, imparerò a ballare per la rivoluzione. Me ne sono allontanato tante volte, dalle sue canzoni, come da un bagno profondo di realtà che a volte è troppo forte per essere assorbito e digerito. Poi sono sempre tornato, fino alla fine, fino alle sue ultime cose, che sono sempre state belle, vere, giuste e contemporanee, di una contemporaneità paradossale e sconvolgente. Un’altra volta, sempre seguendo la mia ansia isterica di molestare le mie star, ho chiesto a Sergio Caputo cosa pensasse di Lolli: “mi piace, è bravo” disse, aggiungendo qualcosa sugli Zingari felici, se non sbaglio. “Ma come, tutto il contrario di te”, gli risposi. Mi guardò sprezzante con gli occhi che mi ordinavano di liberare la mia vita dagli stereotipi. Lo feci, o almeno tentai di iniziare a farlo. Chi vive e canta la propria libertà, nei suoi modi personali e differenti, è molto meno lontano e opponibile di quello che dicono gli scribacchini coatti della pseudo cultura italiana di regime.

Non è facile capirlo, io ho fatto tanta fatica per imparare qualche brandello di cosa significhi la parola libertà. Ora ho le spalle più larghe dei miei vent’anni, e riesco anche a ridere della paura e del fatto che appena nominavo Lolli il mondo intorno a me mi guardava come un alieno (quelli che non lo conoscevano) o come una brutta persona (quelli che lo conoscevano ma nell’orrore scintillante ci stavano bene).

RITRATTO LOLLI 1Sembrava facile toccarlo con un dito, dice, ma il cielo ci ha voluto tutti fermi. Se ho imparato a non stare fermo, se ho imparato a muovermi nel mondo diventando meno alienato di quello che potevo essere, è grazie anche a Claudio Lolli, professore del Liceo Leonardo da Vinci di Casalecchio, la scuola in cui andò per errore a schiantarsi un aereo militare agli inizi degli anni Novanta. Effetti collaterali della guerra quotidiana capitalista, come il ponte caduto proprio tre giorni prima che Lolli ci lasciasse, e anche questa volta è difficile parlare di lui, in mezzo al frastuono rivoltante dell’Italia unita per i “nostri” morti. Lo sai che siamo tutti morti, e non ce ne siamo neanche accorti. Se chi ha privatizzato l’Italia negli anni Novanta se ne fosse ricordato, che vivere da servi del potere e del denaro significa vivere da morti, forse quei morti e tanti altri della guerra quotidiana del capitale contro le persone, oggi non sarebbero morti.

Tutte le volte che ho incrociato Claudio, a Bologna, sotto i portici con le mani nelle tasche della giacchetta, gli ho sorriso troppo emozionato per riuscire a spiccicare parola. Troppo normale sembri, non è possibile per uno anormale come te, pensavo. E ora che tutto questo è dentro di me, nonostante questo, mi manca. Questa notte mi manca. La tua voglia di suonare, la tua voce sensuale, la tenerezza di Michel e la durezza della Vecchia Piccola Borghesia. Eppure lo so, la strada è lì, illuminata e chiarita dalle parole tue e di quelli come te. Bisogna solo iniziare a percorrerla.

* L’ultimo anno – online


Lo chiamavamo Keaton quel pianista
Naturalmente perché non sorrideva mai
Mentre noi ci ammazzavamo di risate
A vederlo come un parafulmine, dritto,
Contro un cielo di guai. 

Guai di tasca, violoncello, guai d’amore,
Guai da vita distratta e disarmata,
Che ricamavano dentro al suo stupore
Una tela affascinante,
Ma un po’ troppo delicata.
E lui si presentò come un jazzista
Appassionato e puro in stile rete tre,
Coi pregiudizi di chi si sente artista,
Perché non faceva soldi, lui,
Con le canzoni, come me.
Ma non mi accompagnava poi malvolentieri,
Eravamo due grandi acrobati della malinconia,
E poi dobbiamo farne di mestieri,
Noi che viviamo, della nostra fantasia.
E parlavamo poi molto in quelle sere,
In qualche bar, dopo il concerto,
Insonni e morti.
Di politica, ciclismo, storie vere,
E di come i Weather Report erano forti,
E di come era importante fra la gente,
Non essere solo musica e parole,
E di come era importante che la gente,
Non fosse una somma di persone sole.
Keaton, Keaton
Che fine hai fatto Keaton,
Sei poi andato in malora Keaton,
Lo sai che ti sto venendo a cercare.
Keaton, Keaton
Perché stanotte Keaton,
Proprio stanotte Keaton,
Avrei bisogno di sentirti suonare. 

Si illuminava poi di colpo,
Lungo l’effimero consueto di una sera,
S’illuminava di una gioia grande,
Quando si avvicinava a una tastiera.
E preferiva quelle un poco usate
Quelle in cui tutti mettono le mani,
Quelle ingiallite dal tempo,
Un po’ scordate,
Dall’ignoranza, dalla passione degli umani.
E poi una volta abbiamo litigato,
Per una donna prima sua, dopo mia,
Lui coi suoi guai, io con il mio quasi peccato,
Sconfitti entrambi dalla malinconia.
Ci siamo persi quasi senza una parola,
Ma tutti e due con più rabbia che rimpianti,
Come i bambini che si fan dispetti a scuola,
Come due vecchi che si sono amati tanto.
Poi ho provato a rintracciarlo dapertutto
Chiedendo a più di un dirigente supponente,
Telefonando all’arcicaccia all’arcitutto,
Ma di lui sembra non sia rimasto niente,
Se se ne parla è nel ricordo di un momento,
Qualcuno dice che l’ha visto ma lontano,
E tutti con un gran sorriso spento,
Quasi per dire “era un ragazzo troppo strano”.
Keaton, Keaton
Che fine hai fatto Keaton,
Se mi vedessi con l’impermeabile,
Sotto la pioggia che ti vengo a cercare,
Keaton, Keaton
Perché mi manca,
Questa notte mi manca,
La tua voglia di suonare. 

E finalmente un chissa chi non mi delude,
Forse, però, non sa, probabilmente,
E’ in una provincia lontana come una palude,
Dai nostri discorsi di suonare tra la gente.
Una provincia come una sconfitta,
Meno che essere una minoranza dignitosa,
E’ una palude è certo troppo fitta
di voli di zanzara per suonarci qualche cosa.
Lo trovo e sembra che non sia più Keaton,
Anche se è contento di vedermi,
Sembrava facile toccarlo con un dito,
Ma il cielo ci ha voluto tutti fermi.
E finalmente ride e ride tanto ed è ingrassato,
E giura troppo che non sta poi male,
Il jazz ormai se l’è dimenticato,
Ci son parole tempi e ritmi
Anche dentro a un ospedale.
E nel lasciarmi all’inizio della sera, dice,
E’ come alla fine del cinema muto,
C’è il sonoro non serve una tastiera,
Ci salutiamo nel silenzio più assoluto,
Ed esco fuori con i miei giornali
E non ho voglia di ridere per niente.
Ho un treno che mi aspetta alla stazione,
Mi dà fastidio anche il rumore della gente.
Keaton, Keaton
Che fine hai fatto Keaton,
Sei poi andato in malora Keaton,
Lo sai che ti sto venendo a cercare,
Keaton, Keaton
Perché stanotte Keaton…

 

Keaton, quello vero, l’ ultima volta che l’ hanno visto passeggiava
lungo le strade e per il vento di Roma
durante le pause di un film con Franchi e Ingrassia.
Aveva in corpo mille litri di alcool,
la faccia la solita, senza allegria;
si ubriacava ogni giorno con la troupe borgatara
alla faccia della cirrosi epatica,
perchè lui ci teneva al suo pubblico,
più che al suo fegato,
e gli elettricisti sono gente simpatica;
gli urlavano infatti “anvedi s’è forte ‘sto Keaton!”,
bevendo il bianco misterioso dei colli di Roma
o quello forte del sud che fa assaggiare l’ infinito
a tutta la gente di bocca buona…


Prima o poi dovevo farla…


 

* i ritratti di Claudio Lolli usati in questo articolo sono di Elise

10 pensieri riguardo “Sembrava facile toccarlo con un dito

  1. Re-censione

    “il miglior ricciato”

    con affetto

    lui

    p.s.

    un giorno mi renderai edotto circa la curva generata dal numero degli ascolti di soundcloud

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