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Settembre-Ottobre 1995
E comunque non è vero che non ho tentato di seguire Erika. Ci eravamo iscritti, io e Tonio, ai test di Scienze della Comunicazione di Roma e di Bologna. Tonio era un altro mio amico e compagno di classe con cui condividevo grandi sogni. Era napoletano per metà da parte di madre, aveva un sacco di sorelle tornate alla terra materna per fare l’università e la loro casa spesso diventava un nostro punto d’appoggio negli anni turbolenti in cui iniziavamo a preparare la fuga dal Salento.
Ci iscrivemmo ai test di Roma ad agosto e a settembre andammo a farli, in due viaggi in cui il quartier generale era Napoli. Nella seconda sortita venne anche Erika che si iscrisse a Fisica a Roma e rimase un po’ con noi a Napoli e un po’ da una sua amica a Roma. Mi sentivo in famiglia in queste due città, avevo già amici e parenti e respiravo un’atmosfera di Sud solo più allargata e incasinata.
Le sorelle di Tonio ci accoglievano con affetto divertito, io ammiravo la vita comunitaria che facevano e sognavo di vivere come loro in una specie di famiglia allargata, i loro amici e compagni ci portavano in giro per la città ed erano sempre disponibili davanti alle nostre domande curiose.
Io e Tonio giravamo per Napoli, ci segnavamo le scritte fantasiose sui muri e gli eventi strani che notavamo in giro con rispetto e devozione, senza mai giudicare.
Nessuno dei due passò i test, né a Roma né a Bologna, anche se per poco. C’erano migliaia di piccoli intellettuali increduli di trovarsi di fronte a tali numeri da concorso militare per racimolare le poche decine di posti disponibili. Piccoli intellettuali che si guardavano male, si giudicavano a vicenda ed erano attenti a notare qualsiasi possibile irregolarità cui appigliarsi, con un’ansia moralizzatrice totalmente dettata dalla sanguinaria competizione cui stavano partecipando.
I quiz di cultura generale per l’accesso a Scienze della Comunicazione nella tarda estate del ’95 furono una sorta di TeleMike interiore, in quei capannoni presi in affitto dalle facoltà per permettere la nascita di questo nuovo corso di laurea. La risposta sbagliata era valutata peggio della non risposta, per cui – nel dubbio – era consigliabile non fare le crocette, pena la perdita di un intero e prezioso punto, tanto più prezioso considerato che la battaglia si giocava sul filo dei decimi e dei centesimi di punto.
Io rimasi al palo a causa di due domande, a Roma risposi che Corto Maltese era un fumetto di Milo Manara, a Bologna che il film in cui Charlot si mangia una scarpa è La febbre dell’oro. Due errori imperdonabili che decisero il mio destino. La futura classe dirigente – giornalisti, amministratori delegati, pubblicitari, comunicatori vari – si giocava così le sue carte, all’alba dell’era della comunicazione digitale.
Fu anche così che in Italia la cultura diventò cultura della competizione di massa. Ma io e Tonio non ne facemmo un dramma. Certo ci rimanemmo male. Nessuno dei due sapeva bene come mettere in pratica le proprie passioni, cosa fare nella vita, e Scienze della Comunicazione era stato un buon escamotage lì sul momento. Più che delusi eravamo preoccupati di trovare altre soluzioni.
In una notte di discorsi nella casa napoletana delle sorelle e facendoci fuori due litri di vino, decidemmo di iscriverci io a Bologna e lui a Napoli, io Filosofia e lui Lettere, erano le scelte più vicine ai nostri desideri. Mi aiutò lui a evitare che fossi condizionato da Erika nella scelta della città, consigliandomi una saggia distanza di sicurezza che avrebbe giovato alla complessa relazione. Non fu così, ma fu meglio così. Lui rimase a Napoli, aveva mezza famiglia lì e la ragazza nel Salento. Anche io e Tonio quindi ci saremmo separati e non avremmo condiviso buona parte del nostro futuro, il nostro gergo fatto di battute di Troisi e canzoni di Pino Daniele, o almeno non lo avremmo più avuto nella quotidianità.
Quella notte di vino rosso servì soprattutto a scacciare questa malinconia e la mia scelta di Bologna fu la fuga da tutto questo, dalla grande pancia della madreterra meridiana in cerca dell’esotico Nord o qualcosa del genere. L’amore problematico e frenato per le mie persone aveva bisogno di una evoluzione.
Tuttavia non ero del tutto rassegnato a lasciare cadere il mio ingresso a Scienze della Comunicazione, la semiotica mi attraeva e decisi di seguire il corso della Violi che iniziava a fine ottobre, prima dell’inizio degli altri corsi di Filosofia. Si era ospiti della clinica odontoiatrica di via San Vitale e i centocinquanta eletti del corso bolognese si muovevano in massa da una sede all’altra, da una lezione all’altra, come un’immensa classe di liceo composta solo dai più fichi, rappresentanti d’istituto, artisti, scrittori, musicisti, filosofi contemporanei, futuri candidati elettorali, figli di giornalisti. La mia pretesa di essere accolto lì dentro, pur senza aver superato lo sbarramento, non fu ben vista come era prevedibile. Il mio intento era di sostenere l’esame all’interno del corso di Filosofia per poi ritentare i test d’ingresso l’anno successivo. Ma questo trambusto logistico mi fece perdere le prime puntate, cosicché quando arrivai per la prima volta a lezione di Semiotica la terminologia della Violi era già incomprensibile per me. Non riuscivo nemmeno a scrivere correttamente i nomi di Peirce e Hjemslev, cosa che mi avrebbe permesso almeno di cercare in biblioteca qualcuno dei loro libri e iniziare a capire di cosa stessimo parlando.
Mi rivolsi al ragazzo che si era casualmente seduto accanto a me chiedendogli gentilmente di poter avere le fotocopie dei suoi appunti. Mi rispose distratto di seguirlo all’uscita. Durante il quarto d’ora di lezione che rimaneva iniziò a fare commenti a mezza voce e con accento marcatamente marchigiano rispetto a quello che spiegava la Violi, si rivolgeva a se stesso ma con il volume di voce tale che potessi sentire anche io, che comunque continuavo a non capire né la Violi né le polemiche del piccolo intellettuale.
Pensai per qualche minuto al fatto di poter diventare suo amico, pensai se ci potessimo piacere. Durante il percorso verso la copisteria capii che non era possibile. Lui e gli altri eletti ed elette che vennero con noi, un gruppetto di cinque o sei persone, avevano già stabilito il numero e la qualità delle loro amicizie, avevano iniziato i corsi da quasi un mese ed erano già inseriti, loro. Per questo motivo non mi degnò di uno sguardo né di una parola dalla facoltà alla copisteria, né lui né gli altri, a parte il momento in cui mi passò i suoi appunti e quello successivo in cui glieli restituii. Non desistetti dal frequentare Semiotica, anche se il colpo era stato duro. Questo gruppetto mi divenne invisibile, così come lo ero io a loro e fui molto attento a non capitarci più seduto vicino. L’aula era grande ed era facile trovare alternative. Iniziai a evitare i gruppetti in generale temendo di incappare nuovamente in simili dinamiche. Fu naturale dunque ritrovarmi sempre di più con altre persone sole. Conobbi una ragazza di Lettere, laureanda, che mi chiese gli appunti e per un po’ ci sedevamo vicini a chiacchierare, le raccontai la vicenda della combriccola ostile, confortato dal fatto che anche lei fosse una non eletta, mi consolò raccontandomi la frequenza e la stupidità di questi comportamenti e dicendomi che alla lunga non ci avrei fatto più caso. Fu la prima nota positiva del mio rapporto con l’ambiente universitario, ma non diventammo amici, la sentivo come una sorella maggiore e credevo di non interessarle veramente, magari non era così.
Ma soprattutto le mie attenzioni si diressero poco dopo verso un’altra ragazza, una tipa mora dalla pelle molto chiara che se ne stava seduta sempre da sola. Ci capitavo spesso nelle vicinanze facendo parte anche io dei senza-fissa-combriccola. Ci scambiavamo degli sguardi fugaci a lezione o nella pausa sigaretta, che entrambi passavamo da soli. Aveva un’affascinante frangia che quasi le copriva gli occhi scurissimi e il resto dei capelli corti e spettinati.
Guardandola bene notai subito nella sua estetica differenze sostanziali con il resto degli eletti. Tutti facevano i casual, evitavano le camicette raffinate, le scarpe di pelle e quant’altro potesse marcare da fighetto, ma il loro essere casual era totalmente deciso a tavolino, risentiva di ore passate allo specchio e di decine di cambi ossessionati di indumenti, ogni mattina. La loro bonarietà era artificiale e funzionale a essere ben accolti in un ambiente quasi esclusivamente di sinistra. Era la prima volta che notavo questo fatto e non sarebbe stata l’ultima ovviamente a Bologna. Mi guardai per un attimo mentre pensavo a questo, guardai la mora frangettona, gli altri e le altre, mentre la Violi parlava un linguaggio straniero vestita anche lei come tutte le altre. Avevo una grossa camicia di lana verde a quadri neri sopra a un lupetto nero, i pantaloni di velluto vecchio marroncino con le righe, presi in Montagnola, le scarpe finto scamosciato, marroncine anch’esse. Mi toccai i capelli, soliti boccoli sempre più lunghi e aggrovigliati, l’orecchino di ferro quasi arrugginito al lobo sinistro…
Oddìo, mi allarmai, sono un alieno qui dentro!
Non c’era nessuno che assomigliasse minimamente a me. C’erano un paio di tizi vagamente folk, ma rispetto a me erano iperordinati. L’unica nota stonata a parte me era proprio lei, la moretta. Aveva pantaloni verdi larghi e una serie di strati di lana che le coprivano la parte superiore del corpo, all’esterno un cappotto fricchettone post-militare che avevo già visto anche quello in Montagnola.
Dato che ero a Semiotica, cercai spiegazioni possibili dentro di me sul senso di questi sistemi di segni che stavo iniziando a decodificare e che coprivano i nostri corpi, se tutto quello che stavo realizzando in quel momento poteva essere interpretato all’interno della griglia sinistra-centro-destra che spesso sembrava l’unica possibile per comprendere i comportamenti delle persone.
Non ne venni a capo, ma nel frattempo notai che mi si era finita la penna. La moretta era la persona più vicina a me anche se era nella fila davanti e tre posti più a sinistra. Allo scoccare della pausa la chiamai.
«Scusa..?» si girò quasi spaventata, non si aspettava che qualcuno la chiamasse «hai una penna da prestarmi?»
La guardai negli occhi per la prima volta, erano neri brillanti, ma facevano fatica a mantenere lo sguardo. Mi sorrise gentilmente e me la prestò risoluta. La tenni per tutta la lezione e mi dimenticai di restituirgliela. Nella lezione successiva mi sedetti sulla sua stessa fila a due sedie di distanza, e poco prima dell’inizio la chiamai per restituirle la penna.
«Ciao, la penna, ti ricordi?» si girò verso di me, anche questa volta sembrava un po’ spaventata ma non stupita, forse stavolta se lo aspettava.
«Sì già, la penna» furono le uniche parole che riuscì a biascicare. Allungò di scatto la mano verso di me, prese la penna con lo sguardo basso. Poi si girò di nuovo, mi sorrise e stavolta trattenemmo lo sguardo qualche secondo in più.
«Grazie» le dissi sorridendo.
«Di niente.»
Oddìo, ma da dove era piovuta? Era più imbranata di me. Sembravamo due cerbiatti nella fossa dei leoni. O due brutti anatroccoli che si incontrano e cercano solidarietà nel bel mezzo del lago dei cigni. Appassionante.
Quando a Roma istituirono scienza delle comunicazioni io frequentavo sociologia ed eravamo nella stessa sede. Il direttore era Costanzo. Frequentavamo gli stessi corsi ma loro si vedeva che si sentivano superiori ed erano indisciplinati, non stavano attenti. Ricordo il professore di economia politica che li invitò ad uscire dall’aula. Che soddisfazione. Comunque credo che ebbero filo da torcere all’esame.
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