Ottobre 1995
Nelle prime due settimane di domicilio effettivo a Bologna ho capito alcune cose. Che le ragazze quando arrivano si tingono i capelli di rosso, di fucsia o di verde. Che l’Osteria delle Dame non esiste più, anche se da qualche parte fuori dalla Via Emilia esistono dei locali fumosi dove si suona il jazz che io non conosco. Che ai bolognesi non frega niente dei locali fumosi dove si suona il jazz, interessa solo a me e a qualcun altro. Che al 36 occupato parlano di cose pallose e poco comprensibili mentre al piano di sotto certi altri si fanno le pere. Che se non ce la faccio a tornare a casa per la fattanza posso anche dormire al 36 unendo due banchi. Che il bar fighetto di Piazza Maggiore non mi dà un bicchiere d’acqua dal rubinetto perché non si paga. Che non serve andare dal controllore, sul 62 notturno alle tre di notte, per comunicargli che non c’erano biglietterie aperte dove acquistare il titolo di viaggio, tanto la multa me la fa lo stesso. Che le mie paranoie sono aumentate vertiginosamente, altro che cazzi. Che se prima i miei valori avevano una parvenza d’esistenza, ora sto perdendo tutti i punti di riferimento. Che non voglio che le persone del mio passato continuino ad essere miei punti di riferimento, né quelle lontane né quelle che sono venute qui insieme a me. Che le future professoresse che occupano le aule di Latino e Storia Romana non sono le persone fantastiche che dovevo incontrare iscrivendomi a Filosofia. Che l’Acostud, i piddiessini arricchiti e tutta la merda affiliata mi ossessionano quanto e forse anche più delle ragazzine con i capelli fucsia e i cani e i padroni di cani al loro seguito.
Ma soprattutto, che il mio ossessionante senso critico sta per liquefarsi nella zona di frontiera. Perché si stanno aprendo i sensi in quest’epoca, nessun odore e nessuna persona e nessuna parola mi passa più indifferente.
Da questo caro mio non potrai scappare, come sei scappato dalle discoteche house della tua terra e dalle insalatone nei pub affogate nella maionese e dai panini addentati dai figliocci incellophanati della borghesia meridiana. Tu e le tue paranoie, tu e il tuo senso critico non potrete più scappare dai vostri sensi.
Cercherete di farlo, ma alla fine dovrete arrendervi.
Gennaio 1996
Torno a casa e mi metto a letto, barcollante. Mi sveglio dopo sei o sette ore, è quasi di nuovo buio. La casa è ancora vuota e fredda.
Cerco qualcosa di lungo e appuntito, cerco gli spaghetti, studio attentamente prima la stufa della mia camera poi quella della cucina. Non trovo niente e mi fermo. Mi siedo sul divano, sta arrivando, mi sto paralizzando di nuovo, mi sta salendo. Non riesco a concentrare la mente su quello che sto facendo, gli occhi si fissano sulla TV accesa. La sto guardando, sto guardando i video, ma ho la nebbia nella testa e negli occhi. Non riesco più a pensare di fare qualcosa che non sia restare così seduto sul divano a fissare la TV. Ma non sto vedendo le immagini, almeno le vedessi mi occuperebbero il cervello. Invece la mia mente sta cercando qualcosa che non trova – forse lo spaghetto, forse un motivo per capire che cosa ci faccio in questa casa – non trova soluzione, ma non riesce a staccarsi.
Penso che se non troverò il modo di accendere le stufe morirò congelato su questo divano, penso anche che non sono capace di trovare un modo per accendere le stufe, io non so fare niente con queste mani. Mi torna in mente quello che mi aveva detto qualche mese prima Erika – quante cose sai fare con queste dita – parlava di quando toccavano le corde della chitarra e di quando le torturavano la clitoride. Ma io non so fare niente con queste mani.
Niente di maschile.
Penso ad Alex. Mi ha visto durante queste vacanze, ero in paranoia anche quel pomeriggio che sono stato a casa sua, dicevo cose scontate sull’inutilità della vita. Lui mi guardava e scuoteva la testa, mi guardava e si irrigidiva in misura proporzionale a quanto io mi appesantivo. È andato a vivere a Milano, mi sembra che stia meglio di me. Ma lui ci sa fare, al contrario di me, e lo amo per questo. Lui si fa le storie e nemmeno me le dice per non vantarsi, io ho solo la nebbia in testa. Le due scopate con Erika, che male. Le uniche due della mia vita. Giro canale, la Rai, un programma pomeridiano parla di giovani e di preservativi.
Quante cose sai fare con queste dita!
Non so fare niente con queste dita!
Non morii assiderato su quel divano ma riuscii ad accendere la stufa. Venni fuori dalla catalessi dopo qualche mezz’ora e chiamai le persone che potevo chiamare in quel momento, invitandole a cena. I punti di riferimento. Qualcuno comunque potevo chiamarlo.
Ci finimmo le rusticherie portate dal Sud, vennero Rosario e Titti che portarono l’erba e mentre chiacchieravamo con i Jethro Tull di sottofondo, seduti sul divano della megacucina, con la mia chitarra buttata su un’altra poltrona e il vassoio di rustici vuoto sul tavolo e le cartine e le mezze sigarette rimaste dall’ultima rollata, iniziai a uscire dalla nebbia.
Gennaio 1996
diario della nebbia spaziotemporale
Ironia, ironia… troppa ironia, troppo poca ironia… morte dell’ironia: vuoto! Qualcosa che c’è, ci deve essere qualcosa per forza, ma non c’è niente, solo frammenti, psichedelia, irrazionalità: vuoto!
Che cosa si può dire se non c’è più niente da dire, o dictum non potest, but something there is somewhere, sed è troppo difficile parlare, non si può parlare… esistono solo sfumature, tentativi di esistenza già diventati cliché prima ancora di rappresentarsi a se stessi… incomunicabilità.
Ed è cliché già questo, fugere non potes, sbatti la capoccia contro la porta della razionalità e sai già quello che sei, “atteggiamento da esistenzialista che vuole fuggire dalla realtà”, soldi soldi soldi voglio tanti ne voglio tanti per fare quello che voglio, “incoerenze che rivelano una falsa profondità” che spesso il mal di vivere è già passato non lo inventi tu, ma cazzo sei volgare porca troia sei bravo a far Bukowski ci vuole tanto ci vuole poco, dove nasce il mio sentimento che sboccia come un fiore a primavera su un prato smantellato trent’anni fa per farci passare sopra l’asfalto, ma se le tue idee le hanno già vendute vent’anni fa, che cazzo vai dicendo, e ci credi pure magari non sai che a parlar così fai la figura dell’imbecille, ma forse basta riflettere un attimo, ma la riflessione la riflessione dov’è, se l’è mangiata a tavola una famiglia durante il Natale ’88, e poi magari mi voglio far prendere sul serio, ma se sto ascoltando Pat Metheny allora prima stavo guardando una tribuna elettorale, a pomeriggio sono stato con Samuel per le vie di Bologna e negozi di musica, ma come faccio io a dare senso alla vita se stamattina sono stato a lezione, che cazzo sto facendo qui dove sono, dove sono le emozioni, dove le vado a cercare se non voglio stare in nessun posto della Terra per più di tre giorni, però c’è la gente, bisogna amare la gente, anche se incontro tre fascisti in un’osteria, anche se i manifestanti più alternativi picchiano due coglioni pannelliani, anche se della massa non me ne
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frega niente e tra la folla soffoco, anche se domani o dopodomani tornerò al paese natio e so che significa, anche se Bologna è rossa di vergogna e io non riesco a vivere, non ci riesco… ma bisogna amare le persone.
Mi ricordo che quando ero bambino, un bambino, pensavo ma se io sto qua adesso e mi ha creato Dio che c’è adesso, allora se io non c’ero prima anche Dio in qualche prima non doveva esserci? E anche tutto doveva essere niente, e allora pensavo a un marciapiede vuoto senza persone senza macchine senza strada, ma anche il marciapiede non ci doveva essere, allora che c’era?
No è meglio non pensarci…
E mi ricordo mio fratello bambino, un bambino che passeggiando d’estate sulla rotonda del Lido si fermava ad ammirare i quadri di un pittore locale, spettatore ammaliato di cinque anni, di pochi complessi, di poche ma sicure verità, prima che the civil society glie ne inculcasse altre che lo rendessero migliore, adesso però non so se guarda ancora i quadri con la stessa intensità e ammirazione, ma l’importante è che il progresso progredisca progredendo dal regresso, ma io non so cos’è il progresso, se i progressisti sono conciliabili con “questa strana paura che ho, questa voglia di uscire andare via”.
Se però io faccio qualcosa è perché sento di farla, o perché non posso fare niente di meglio se la situazione è questa, non so essere migliore, mi devo adeguare alla merda o forse non ho ancora imparato ad elevarmi, però quello che mi fotte è che in fondo non me ne frega molto.
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