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Raccontarsi a scuola fa paura?***

di Gianluca Ricciato

Oggi per me è finito un anno di interventi, laboratori e progetti scolastici nell’educazione alle differenze di genere, come la chiamiamo oggi, più o meno. Lo stesso anno in cui sono spuntati messaggi intimidatori, whatsapp allarmanti, manifesti in strada contro la vendita di bambini alle coppie gay e processioni in piazza per difendersi dalla teoria del gender, come la chiama oggi qualcun altro.

Faccio l’educatore nelle scuole da dieci anni, soprattutto sui temi della sostenibilità ambientale e delle differenze di genere, e se c’è un motivo per cui ho iniziato a fare questo lavoro è perché volevo cercare di stare nella scuola, nella formazione e nell’educazione senza imporre pensieri e idee in modo autoritario, qualunque siano queste idee. Non ho mai pensato di voler cambiare il mondo così, mi bastava e mi basta pensare di essere riuscito a volte a creare spazi di libertà e di benessere dove bambine/i e ragazze/i abbiano potuto raccontarsi ed esprimersi nel modo più libero e costruttivo possibile.

L’esatto contrario di quello che in alcuni casi ho subito io nella mia educazione scolastica, dove ad esempio un insegnante di letteratura con un’ideologia cattolica fondamentalista abbassava i miei voti ai compiti di italiano in modo inversamente proporzionale rispetto alla crescita della mia cultura e della mia libertà di espressione. Dove era un problema la presenza del mio io narrante nella mia scrittura, che invece in quegli anni stava iniziando la sua fuga a gambe levate dalle nozioni incrostate che cercavano di darci lui e quelli come lui. Così come la forma delle mie parole si liberava dall’ampollosità delle punteggiature imposte per legge e non dettate dalle pause dei miei pensieri.

Creare spazi di racconto e di libertà, affrontando i temi delle relazioni con le e gli adolescenti, presuppone per me che si esca dalla modalità di insegnamento unidirezionale e nozionistica: per questo motivo, se non ce ne fossero migliaia di altri, non ha senso l’accusa sentita in questi mesi di voler indottrinare le giovani menti con i nuovi paradigmi “gender”.

La differenza non sta negli stereotipi di genere. Noi non andiamo in classe ad imporre altri stereotipi rispetto a quelli dati della “famiglia naturale tradizionale”. La differenza sta soprattutto nel metodo: per invitare ragazzi e ragazze a raccontarsi, ad uscire fuori da un parlare che assomiglia a un tentativo di indovinare quello che devono dire, per allontanare i loro discorsi scolastici preimpostati – i  “prati sempre verdi” e le “vite sempre belle” (a parole)[1] mentre intorno si configurano disastri personali e planetari – ci vuole più fatica rispetto a chi sale sull’altare del sapere e propina loro verità dogmatiche e oggettive.

Ci vogliono un’attenzione e un lavoro di messa in gioco, ci vogliono l’arte, il teatro, i gruppi di lavoro, i laboratori sulle relazioni, lo spazio per le emozioni, ci vogliono i giochi e il camminare, ci vogliono le risate e a volte ci vuole anche la tristezza, e ci vogliono setting destrutturati dove si smette di guardare la nuca del compagno davanti. [2]

Ci vuole un sapere che non sia più in conflitto con il desiderio di chiunque, che non elimini la differenza storica tra uomini e donne e non limiti la ricerca della felicità e della libertà, anche e soprattutto quando questa ricerca è più difficile a causa dei condizionamenti sociali  e culturali.

Indicare, come educatore maschio, forme di mascolinità non sessiste che si liberino dai modelli patriarcali e dalla divisione dei ruoli, significa mettersi in gioco insieme a loro, insieme ai loro vissuti di maschi e di femmine: non servirebbe, a questo scopo, fare lezioncine edificanti. Serve partire da sè e non barare, serve onestà e sincerità, per quanto ne siamo capaci: “educare significa essere implicati in un agire pratico ad alto tasso di problematicità”[3].

Questo è il vero motivo degli attacchi per me, ed è per questo che me li aspettavo: creare spazi di libertà, di narrazione, di emersione del vissuto, di condivisione libera della parola, significa indicare una strada che non è quella del cittadino depresso e schiavo facilmente domabile (dai media, dal capitalismo e dai dogmatismi). È la strada della libertà: uno spiraglio di ossigeno in mezzo all’asfissia, che se diventerà o meno aria pulita dipenderà da loro.

Questo è quello che tentiamo di fare, non cambiare il mondo: è un lavoro che è anche un impegno di miglioramento sociale e civile e di crescita culturale, e sarebbe il minimo sindacale poterlo fare. Non dico con continuità, ma almeno senza essere attaccati dal fanatismo. Che già ci sono i nostri dubbi personali, le nostre emozioni, i nostri problemi adolescenziali che tornano a galla e i nostri vissuti imperfetti, ad aumentare la fatica di parlare di relazioni e di emozioni con ragazze e ragazzi.

Però è vero…il bello è anche questo.

***

[1] Ho preso questi esempi dal libro di Luisa Muraro Maglia o uncinetto. Racconto linguistico-politico dell’inimicizia tra metafora e metonimia (Feltrinelli, Mi 1981), libro su cui ho fatto la mia tesi in Filosofia e le cui narrazioni riguardanti le esperienze educative nelle scuole rimangono secondo me tra le cose più interessanti, più innovative e meno comprese di questo testo. Cfr qui

[2] Confronta su questo tanta pedagogia sull’educazione alla sostenibilità, ma questo esempio in particolare è di Giovanni Borgarello, uno tra i massimi esponenti dell’educazione ambientale italiana: “La disposizione dei banchi e delle sedie nelle aule durante le lezioni è di fondamentale importanza. Non deve essere la nuca del compagno il ricordo principale che il ragazzo porterà a casa. Invito implicito al dialogo orizzontale, per intenderci…”, cfr qui, pag. 36

[3] Luigina Mortari, Apprendere dall’esperienza. Il pensare riflessivo nella formazione, Carocci (Bo 2003), pag. 9

***Questo articolo è uscito originariamente nei Quaderni del Venerdì del sito Maschile Plurale

3 pensieri riguardo “Raccontarsi a scuola fa paura?

  1. Uscire dagli schemi è per taluni pericoloso, perché viene a mancare il controllo sulla persona. Parlare senza urlare, discutere senza litigare, esprimere senza imporre è un esercizio assai difficile, perché per molti è sovversivo.

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  2. Il ruolo dell’educatore è di estrema complessità. Un insegnante ha la possibilità così come la famiglia di contribuire alla formazione di un individuo. Se nessun insegnante è disposto ad uscire dagli schemi molti ragazzi affonderanno nei loro problemi, cercheranno di superare dei disagi e ne crearanno altri. Portare avanti campagne di sensibilizzazione su diversi temi, tra cui quelli di attualità è essenziale per formare prima di tutto cittadini, l’educazione civica non ha questo scopo?! Formare cittadini civili?! Ecco, ci sono tematiche che vanno approfondite, che riguardano tutti anche se di riflesso. A mio avviso l’unico modo di spiegare il mondo è analizzandolo. I libri insegnano molto, ma forse non la vera vita. Bisogna fornire chiavi di lettura, non imporle, ma se le stesse non venissero fornite l’educazione fallirebbe. Per esperienza personale ricordo con affetto quegli insegnanti che alle lezioni frontali, associavano un’infinità di attività che potevano davvero rappresentare un momento di crescita, attraverso il dialogo e il dibattito. Eppure ricordo di come alcuni insegnanti vedendola in modo opposto erano sempre lì pronti a penalizzare sul voto.
    Un saluto.

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