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Articolo uscito su Leggendaria, n. 113, 2015

di Gianluca Ricciato

Ci sono pochi riferimenti bibliografici ancora che studiano la cosiddetta “questione maschile”, e ancora meno ce ne sono che mettono in relazione il maschile con il superamento della coppia, della monogamia, dello schema classico speculare fedeltà coniugale/doppia morale.

Sarà che è un argomento spinoso, o sarà che forse ancora non è chiaro il collegamento tra superamento del dominio patriarcale e superamento della forma famiglia cattolico-borghese. Sarà che confrontarsi con la libertà femminile, fino in fondo, e soprattutto quando riguarda corpo, sesso e sentimenti, è un po’ duro, ad esempio in una società come quella italiana, dove fino a soli 34 anni prima rispetto al momento in cui sto scrivendo, esisteva un’attenuante giuridica per le uccisioni che riparavano la perdita dell’onore maschile.(1)

Provo allora a prenderla alla larga, e prendo in prestito due famose scene del cinema italiano per accennare brevemente ad almeno uno dei problemi che gli uomini devono affrontare nel momento in cui decidono o si trovano ad avere relazioni non monogamiche, come si dice. Di tutto il resto probabilmente ne parlaremo nei prossimi decenni.

La prima scena è presa dal film Ecce bombo di Nanni Moretti, del 1978.(2) In pieno agosto, il protagonista Michele si trova rinchiuso in casa senza sapere dove andare e chi vedere, asfissiato come se fosse in un acquario, alienato alle soglie della depressione. Legge sul giornale notizie di orrenda quotidianità – siamo alla fine degli anni Settanta – subito dopo emette un urlo disperato e inizia a battere sul tavolo a tempo con la mano. Questo battito introduce la scena successiva,(3) in cui un reporter – sempre il solito che fa un programma sui giovani – va ad intervistare i protagonisti del “Festival della felicità”, un raduno estivo rock all’insegna del motto “Gioia e rivoluzione”. Intorno agli intervistati, tutti i partecipanti piangono, litigano, si strappano i capelli, in una parola sono disperati. Dietro al palco, beffarda, appare a caratteri cubitali la scritta: “Riprendiamoci la vita”.

Il senso di questa scena è abbastanza chiaro: le parole, gli slogan, i discorsi rivoluzionari di cambiamento radicale di se stessi e della società si scontrano con la percezione del fallimento esistenziale di una generazione – quella degli anni Settanta, quella di Moretti – un fallimento che è personale e politico. Questo non implica, a mio parere, un giudizio sulla giustezza o meno delle critiche, ma piuttosto sull’efficacia o meno delle pratiche realizzate, se è vero che è “vano fare la critica dell’esistente con lo scopo di cambiarlo: l’esistente si riproduce non perché sia giudicato buono ma perché lo riproduce un meccanismo che può risultare più forte delle nostre intenzioni e critiche, per quanto giuste. Il problema è, allora, di spezzare il meccanismo della ripetizione.”(4)

Oggi, dopo che è diventata di opinione pubblica la parola poliamore che ha reso accessibili anche al pubblico mainstream i discorsi sull’amore libero, sulle alternative alla monogamia e in generale sulla messa in discussione del sistema-coppia tradizionale e delle sue dinamiche conniventi con il patriarcato, una domanda generale si pone secondo me, ma si pone soprattutto agli uomini: quanto siamo capaci, nella relazione con una donna, di accettare la sua libertà senza che funzioni dentro di noi quel mostro interiore che vede nell’altro uomo un nemico, un concorrente, un cacciatore che si butta sulla nostra preda per togliercela, un violatore di un altro corpo “di nostra proprietà”, una vergogna sociale, insomma un fallimento della nostra virilità? Quanto persiste, a chi più e a chi meno, questa cultura stereotipata tramandata per millenni della virilità che sappiamo essere una costruzione culturale e non un destino del sesso biologico maschile, e che tanti danni e tanta violenza ha portato nel mondo?

La seconda scena che voglio citare forse può chiarire meglio i termini di questa domanda. Si tratta di un film poco successivo a quello prima citato, cioè Ricomincio da tre di Massimo Troisi, del 1981. La trama di questo film è abbastanza nota: Gaetano è un giovane napoletano oberato dalle dinamiche del Sud e dalla disoccupazione, che parte per Firenze spinto dalla curiosità di conoscere qualcosa di nuovo più che dalla necessità economica, ma chiunque lo incontra lo appiattisce sullo stereotipo di “emigrante meridionale”, da cui lui sta cercando di fuggire, come da tutti gli altri stereotipi del Sud – è una costante questa del cinema di Troisi, forse non sempre chiaramente comprensibile. Incontra Marta, una scrittrice femminista con cui inizia una relazione, che poco dopo finisce in una convivenza nell’appartamento di lei a Firenze. La ragazza gli parla spesso di libertà nelle relazioni e gli propone di essere una coppia aperta, senza gelosie. Gaetano accetta senza pensarci troppo ma presto i nodi vengono a galla. Lei gli svela di aver fatto sesso con un ragazzo molto più giovane e lui, ferito ma incapace di reazioni aggressive, trova dei modi grotteschi per elaborare questa notizia e, sostanzialmente, fugge per non ammettere a se stesso e a lei di essere geloso.

Questa scena avviene prima a letto, poi nel famoso monologo di Gaetano di fronte allo specchio.(5) Verso la fine del film, Gaetano torna a Napoli e sta quasi per abbandonare la relazione con Marta, ma decide di farsi forza e torna a Firenze per affrontare l’argomento, con se stesso e con lei. Ammette finalmente – parafrasando le sue parole – che lui ha un problema, che non gli è possibile da un giorno all’altro mettere da parte le corna, l’onore e tutto quello che gli hanno insegnato da quando è nato, cioè quel modo di essere maschio. Che non si può fare finta di non avere un sentimento se te lo hanno instillato nelle vene, che bisogna darsi il tempo per lavorarci. E che nonostante questo lui non vuole scappare, nemmeno davanti alla notizia che lei è incinta e non è sicura che il bambino sia di Gaetano o del ragazzo con cui ha fatto sesso.

La famosa scena finale del film, nota soprattutto per il suo lato comico – “chiamiamolo Ugo questo bambino, così viene educato, perchè se lo chiamiamo Massimiliano viene scostumato: il nome è troppo lungo e il bambino ha il tempo di scappare!” – è in realtà un altro segno di questo atteggiamento: Ugo è il nome di suo padre, Gaetano sa che questa è un’usanza che farebbe piacere alla sua famiglia, ma non ha il coraggio di rivelarlo a Marta, anche se lei se ne accorge subito nonostante questa plateale copertura del “Massimiliano che viene scostumato”.

L’abisso che abbiamo di fronte oggi, secondo me, è sempre quello tra la teoria e la pratica, tra le parole e le cose, ma ad un livello più profondo, più intimo, più minimale e quotidiano. Uscire fuori dall’immagine intima e sociale dell’uomo che pretende di “possedere” una donna è la rivoluzione finale che mette in discussione il fondamento del patriarcato. E una rivoluzione non la si fa da soli e non la si fa da un giorno all’altro. Per questo motivo i tentativi falliti non dovrebbero essere fonte di frustrazione, ma nello stesso tempo non dovrebbe essere considerato un fallimento nemmeno accettare i limiti personali, quindi quello che effettivamente si riesce a fare. Anzi forse è proprio questo il successo: saper dire la verità e non inventare più teorie staccate dalle pratiche, visto che abbiamo millenni di esempi fallimentari di politiche maschili basate su questa frattura. Del resto, è un attimo ricadere dai proclami poliamorosi alla messa in atto delle doppie morali, cioè delle dinamiche moglie-amante, delle mezze verità, di coperture e finzioni e di tutto quello che ben conosciamo, dato che sono state il fondamento della coppia cattolico-borghese in cui tutti/e noi siamo cresciuti/e.

Per questo motivo, alla domanda “ma tu non eri per il poliamore?” che spesso mi sono sentito porre da amici e amiche intime, mentre racconto delle mie paure legate alle mie situazioni sentimentali, ho deciso di rispondere come Troisi rispondeva alla domanda: “emigrante?”. Cioè dando ragione a loro, raccontando i fatti, svicolando dai discorsi teorici il più possibile, e aspettando tempi in cui saremo più capaci, maschi e femmine, di essere liberi/e e di essere onesti/e.

 TROISI

NOTE

(1) cfr. Delitto d’onore: https://it.wikipedia.org/wiki/Delitto_d%27onore)

(2)  http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=28498

(3)  https://www.youtube.com/watch?v=2cvZxa5AhHg, titolo del video “Fungos”

(4) in Luisa Muraro, Maglia o uncinetto. Racconto linguistico-politico dell’inimicizia tra metafora e metonimia, Manifestolibri, Roma 19982 (19811)

(5) – La gelosia: https://www.youtube.com/watch?v=UcQeBjeYJ3k

 

4 pensieri riguardo “Ma tu non eri per il poliamore?

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