È una di quelle poche volte che accettiamo di andare a una festicciola di parenti, piccola, una cena all’aperto. Giusto perché è in campagna e si sta bene. Lungi da me è sempre stato costringere una mia amica a cerimonie tardomeridionali, dove la domanda implicita o esplicita in agguato è sempre quella: “quando vi sposate?” Dato che è inutile spiegare quello che siamo perché sarebbe fantascienza, evitiamo. Ma ogni tanto no. Come questa sera che è iniziata l’ultima decade di agosto e la luna è piena. Mangiamo l’anguria e i dolci e ci congediamo con saluti calorosi e “quando volete passare noi stiamo sempre qua”.

Lo spartiacque tra questo mondo e quello ormai lo so qual è. Non c’è nient’altro che ha diviso e divide questi due mondi quanto la droga. Perciò appena usciti da lì abbiamo solo un desiderio, buttarci in spiaggia e farci una canna. Dalle stradine di campagna si arriva in prossimità del mare, mi avventuro e con un po’ di fortuna incrocio la provinciale conosciuta. Prima di andare in spiaggia ci rendiamo conto che come al solito la lancetta della benzina della Uno è appoggiata sotto lo zero e allora entriamo a Gallipoli dove ci sono i distributori.

Supero la prima rotonda e mi immetto sul viale che porta al centro, i distributori sono dall’altro lato della strada e c’è troppo traffico per riuscire ad entrarci, vado avanti e faccio la seconda rotonda per tornare indietro sull’altro lato. Mentre sto girando mi rendo conto che una macchina della finanza si sta per immettere nella rotonda subito dopo il mio passaggio, la quale difatti si aggancia subito al culo della mia Uno in modo da osservare meglio quanto è vecchia e sporca e cosa c’è scritto su quel rettangolino adesivo accanto alla targa: “Stop Esso”, retaggio di qualche manifestazione dell’epoca del movimento antiglobal, che ha subìto qualche anno di intemperie ma è ancora visibile. Poi la macchina in realtà la prendo solo quando torno qui in vacanza, quindi si è anche mantenuto bene.

So già nella mia mente cosa succederà ma non lo dico alla mia amica. Imbocco la stazione di servizio e loro procedono avanti. Faccio benzina, pensieroso. Lei intanto ha appena finito di rullare la canna. Le dico solo di metterla in borsa. Il resto del fumo ce l’ha lei, io non lo porto più addosso, da quando mi hanno segnalato.

Dopo un centinaio di metri, non so come e la mia mente deve ancora spiegarmelo, la mia memoria a breve termine ha un black-out e non mi rendo conto della paletta biancorossa cui sto andando incontro. La vedo solo all’ultimo momento e quindi freno di colpo qualche metro più avanti, dando l’impressione di aver provato un tentativo di fuga. Il comandante è incazzato nero per questo e appena scendo mi inveisce contro. Io mi costerno e mi prostro a sua maestà il potere.

Ci chiede i documenti e senza pensarci due volte decide di perquisirci le tasche e la macchina, interamente. Ci fa aprire cruscotti, bagagliai, zaini senza trovare nulla, ma il clima è sospetto e noi non siamo tranquilli.

Io ho paura che dalla centrale risulti la mia segnalazione.

“Perché avete i sacchi a pelo?” chiede a bruciapelo il comandante

“Perché siamo stati in campeggio” rispondo

“Ma lei non è originario di queste parti?”

“Sì ma siamo stati lo stesso qualche giorno in campeggio…”

Non è soddisfatto della risposta ma sa che non ha prove per accusarci di tendaggio abusivo e questo lo innervosisce ancora di più.

“Signora, apra la borsetta, anche lei, e faccia vedere il contenuto”, dice il finanziere sottoposto minore, mentre il comandante e l’altro sottoposto maggiore iniziano a disperare di trovare qualcosa in macchina. Ma si stanno pericolosamente avvicinando al fuoco, dopo aver inutilmente girato nell’acqua per svariati minuti.

“Anche l’astuccio della macchinetta fotografica, apra anche quella”

La (mia) signora apre l’astuccio e dalla tasca finale, quella più piccola, esce un minuscolo oggetto morbido dai lati irregolari e di colore marroncino scuro, racchiuso in una bustina di plastica trasparente e sigillata con il fuoco dell’accendino. Il finanziere che la stava perquisendo prende in consegna il corpo del reato e gli altri due, il comandante e il sottoposto maggiore, mi guardano soddisfatti, dopo una breve scossa di piacere dettata dal non aver buttato invano questo quarto d’ora.

“È suo il fumo, io non ne uso…” dico, e loro passano dalla soddisfazione allo stupore per cotanta vigliaccheria da parte di un uomo di fronte alla sua signora. Io invece sono stupito del fatto che dalla centrale non risulti la mia segnalazione, ma mi conviene comunque rimanere guardingo e scaricare il barile, come la mia amica già sapeva, naturalmente.

Nel mentre il capo e il vassallo stanno decidendo cosa fare, il valvassore che è anche il più giovane, sta intortando la mia amica e con un inganno degno di maggiore fortuna nella scala dei gradi, riesce ad estorcerle la confessione: “sì c’è un’altra canna, già rullata, è in macchina, l’ho buttata sul sedile posteriore prima di scendere”. Nonostante la promessa di tenere per lui la confessione, il finanziere ovviamente va subito dal comandante e riferisce. Ricomincia la perquisizione della Uno. Inizio ad aiutarli anche io perché altrimenti non ce ne usciamo più da questa storia.

La canna non si manifesta, non c’è niente da fare, non usciva prima e non esce ora. Scartabelliamo tutto ciò che è presente sul sedile posteriore, un telo da mare, cianfrusaglie, una bottiglietta d’acqua, ma nulla. Vado dietro dove la portiera è già spalancata, infilo io stesso la mano dalla parte di dietro del sedile per cercare nell’interstizio, ma incontro solo la mano del comandante che sta ravanando dall’altra parte, sulla vecchia stoffa blu del sedile, con la sabbia incrostata dai giorni di mare. In un’inedita alleanza ci guardiamo e ci arrendiamo, contemporaneamente.

Torniamo tutti in circolo davanti alla loro macchina. Il comandante un po’ scoglionato e un po’ straniato dall’enigma, accenna una breve arringa non troppo convinta sul tema della droga, che tutti i presenti conoscono già, concentrandosi sul piccolo oggetto marrone. Lui mi sembra il tipico cinquantacinquenne delle mie parti, fascio per inerzia, non sadico, che avrà un figlio o una figlia quanto me, i quali o hanno gli stessi problemi miei e se ne sono scappati da qui tempo addietro, oppure hanno già figliato a loro volta e stanno prendendo per inerzia la stessa strada del padre. O in un mondo o nell’altro. Visualizzo in un attimo questa scena e scoglionato anche io, riesco a fermarlo: “guardi che noi non siamo criminali!”

Mi guarda perplesso. Continua l’arringa che però inaspettatamente devia dalla moralità alla legalità, dicendo che se una cosa è illegale non bisogna farla, e che però loro sanno anche chiudere un occhio.

“Che numero di scarpa ha lei?”

“Quarantatre”

“Ecco allora, lo pesti”

Fa per gettare a terra il fumo e io rimango interdetto.

“Forza, lo pesti e lo butti via nella campagna”

Mi viene la ridarella convulsiva, lo pesto e provo a scalciarlo ma non ci riesco, è troppo piccolo, allora sopraggiungono i due sottoposti che con gli stivaloni lo scrafazzano e ne allontanano i resti verso la terra.

“I documenti. Potete andare…”

Ce la svigniamo subito ma impieghiamo un po’ a rimettere a posto la macchina rimasta sottosopra dalla perquisizione. In questo frattempo e poco dopo i saluti, i militari fermano un’altra macchina, grossa e luccicante. Mentre mi sto per rimettere alla guida noto che la fanno andare via subito, dopo aver esaminato brevemente i documenti. Non è nemmeno sceso dalla macchina il guidatore. Mi è sembrato di riconoscere subito il tipo, discotecaro lucidato per la serata, figlio dell’alta borghesia palazzinara di questa città che lì dentro può averci anche un etto di coca comprato con i soldi di famiglia. E il comandante nemmeno lo perquisisce, tanto sa che non gli succederebbe niente, comunque sia.

Mi tengo per me anche questi pensieri e metto in moto.

Prima di partire, automaticamente voltiamo lo sguardo verso il sedile posteriore, io e la mia amica, per controllare che ci sia tutto. La vediamo. È infilata nelle pieghe del telo da mare, che è stato sbatacchiato in lungo e in largo nella perquisizione ma non se l’è lasciata sfuggire. Dopo tutto questo, abbiamo ancora una canna. Non ci possiamo credere. Fuggiamo fuori dalla città, e dalla civiltà, sul viale che porta alla spiaggia costiera del nord, quella dei miei mille falò abusivi adolescenziali con annessi e connessi. Ridiamo. Scendiamo di corsa come se ci fosse ancora qualcuno che ci insegue, ma entrati nella pineta rallentiamo. Abbiamo portato anche il nostro amico telo. Lo stendiamo, ci stendiamo sopra, sotto la luna piena che nasconde le stelle ma brilla nel mare piatto. Ci abbracciamo e ci baciamo, brevemente.

Subito dopo, l’accendiamo.

5 pensieri riguardo “Fiaba tossica 1. La canna mimetica

  1. Buon mattino, ti si legge tutto d’un fiato e non annoi affatto.
    Le “canne” mi piacciono, ma solo quelle che si agitano al vento nei pressi del mare o altri luoghi

    Un sorriso per te
    Mistral di Ombreflessuose

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